Luigi Maria d’Albertis (1841-1901), fu esploratore e studioso di scienze naturali. Viaggiò in Nuova Guinea tra il 1871 e il 1877, raccogliendo un numero impressionante di nuove specie di animali e di piante.
Nell’ultimo viaggio era da solo con un equipaggio di nativi e di cinesi, che risultarono per lui minacciosi quasi quanto gli abitanti dell’isola, dai quali di difendeva con mezzi fantasiosi e rocamboleschi. I suoi diari vennero pubblicati nel 1880 con il titolo “Alla Nuova Guinea, quello che ho veduto e quello che ho fatto”.
La versione ridotta è ora disponibile sia in italiano che in inglese.
Ho cercato invano un modo infallibile per indurvi a leggere, e a commentare, questo brano, a cui tengo molto, ma non l’ho trovato. Allora vi dico le cose come stanno.
Questo libro, di cui vi propongo il primo capitolo, è il riadattamento di un libro scritto alla fine dell’ ‘800 da un mio antenato esploratore.
Ho eliminato le parti scientifiche che contengono descrizioni minuziose, lasciando le parti avventurose che penso possano interessare il lettori moderni, sperando che ci siano.
Probabilmente l’Autore si rigirerebbe nella tomba, se ne avesse una, per quello che ho fatto.
L’italiano antiquato richiede un po’ di pazienza ma, ve lo assicuro, ne vale la pena.
Grazie fin da ora per i vostri commenti.
Se saranno incoraggianti vi propinerò un altro pezzo.
CAPITOLO I
Il venticinque novembre 1871, col Dottore O. Beccari, salpammo per Bombay. Alcuni amici ci avevano accompagnato a bordo, per essere gli ultimi ad augurarci buon viaggio e buona fortuna per la nostra impresa, l’esplorazione d’un paese selvaggio, misterioso, lontano: la Papuasia. L’idea di andare in un paese dalle foreste vergini e sempre verdi, nel paese dell’estate continua, ove avrei trovato l’uomo non ancora degenerato figlio della Natura, l’uomo selvaggio allo stato primitivo, mi stava così fissa nella mente, ed esaltava tanto la mia fantasia, da farmi parere eterni i momenti necessari a un bastimento per sortire dal porto.
E prima di arrivare alla Nuova Guinea, dovevamo visitare paesi orientali, ove la vita e i costumi sono tanto differenti dai nostri, come sono le persone che costituiscono le differenti razze e le differenti popolazioni.
E anche a questo la mia fantasia si esaltava, e non andavo sognando in me che i superbi cavalli dell’arabo, i cammelli del deserto, templi e pagode, sultani e odalische.
Da Genova a Napoli, da Napoli a Messina, ove ricevemmo la nuova che il Re aveva aperto il primo Parlamento a Roma e pronunziate quelle celebri parole: “A Roma ci siamo, e ci staremo.” Finalmente fummo a Port Said, traversammo il canale di Suez, visitammo i pozzi di Aden, e salimmo sulle nude e nere sue vette.
Vidi i cammelli e i cavalli non arabi, ma dell’arabo; vidi l’arabo stesso, povero e cencioso, e le luride sue donne; vidi miseria e vizio vivere nella stessa casa, e uomini e animali come fratelli, e mi domandai: è questo l’Oriente?
Vidi l’arabo devoto salutare prostrato il sole nascente, ma lo vidi prostrarsi nel fango, e mi domandai se egli non poteva essere religioso e pulito allo stesso tempo. Mi domandai che cosa vale la religione per l’Arabo, se la sua religione non basta a toglierlo dal fango morale e materiale in cui vive. A Bombay si risvegliò in me ancora un poco di entusiasmo per l’Oriente, e vidi la torre del Silenzio, e le torme degli avvoltoi roteare nell’aria, aspettando il pasto giornaliero.
E poi, a Point de Galles, penetriamo nelle selve di palme, nelle pianure, nelle paludi, e per la prima volta vedo sedici scimmie, libere e indipendenti, vivere alle spese dell’uomo che coltiva la terra, e del quale esse rubano i frutti.
Vedemmo la gente laboriosa e industre, ma vizio e miseria naturalmente serpeggiano ovunque.
Da Singapore a Giava, da Batavia a Buitenzorg, da Buitenzorg a Sinanlaya, sul Pangarango, l’antico vulcano.
Da Giava a Macassar, a Timor Dili e Coupang, passando per lo stretto di Flores, uno dei siti più pittoreschi che io abbia mai veduto.
Da Timor a Banda, da Banda ad Amboina, la capitale delle Molucche.
Da Amboina, dopo una traversata di circa 24 ore, sotto un diluvio di pioggia giungemmo a Whahai. A bordo vi era il Residente di Amboina. Una folla di gente lo aspettava allo scalo per complimentarlo, e, quando scese a terra, principiò una musica assai strana, poiché gli strumenti erano gong di tutta le dimensioni. Due o tre dozzine di guerrieri ballerini, o ballerini guerrieri, facevano ala al suo passaggio, vestiti all’orientale, cioè con turbante rosso, tuniche bianche e piedi nudi. Nella destra tenevano un parang, o grosso coltellaccio, e nella sinistra un piccolo scudo. Agitando scudo e coltello, e contorcendo la persona in mille guise, precedevano il grande personaggio. Bello e grottesco a un tempo era lo spettacolo, e il sole faceva brillare le terse lame dei coltelli. In quell’accoppiamento di tanti vivi colori, in quei moti, in quei gesti, c’era qualche cosa di fantastico, di singolare, e di nuovo per me non abituato a scene simili.
Circa 14 rajah, o capi di altrettante tribù di cui si compone il villaggio, facevano seguito al residente. Arrivati a una casa, posta in fondo a un lungo viale, il residente si assise sopra una specie di trono, contornato da tutti i notabili del paese. La musica continuava ad assordarci, ma a un cenno del residente tacque, e finirono le danze. Tra questi rajah ve ne era di tutte le qualità. Alcuni erano vestiti mezzo alla turca mezzo all’europea, alcuni con scarpe, alcuni senza. V’erano certi abiti un tempo già neri, ma ora rossicci o verdognoli, che certo non erano stati tagliati per il dosso di chi li portava. Ma questo messo da parte, osservai che, per lo più, erano tutti netti negli abiti e nella persona. V’erano anche cappelli a cilindro, che offrivano tutte le gradazioni dei colori, e per le loro forme potevano reclamare un’antichità forse anteriore alla celebre antica Corona di ferro. Essi, come la Corona d’Italia, certo passarono di generazione in generazione.
Finalmente giunse l’alba del 21 marzo. La bandiera italiana sventola all’albero del piccolo schooner che abbiamo noleggiato per portarci a Outanata. Il suo nome è ‘Burong Laut’ , ovvero l’uccello del mare!
Ci accompagnarono a bordo alcuni signori e signore di Amboina, per darci il buon viaggio; si ruppero alcune bottiglie di champagne per benedire il bastimento e poi, dopo molte strette di mano, prendemmo congedo.
Il venticinque, dopo essere passati al sud dell’isola di Ceram, giungemmo alla piccola isola Ghesser. L’isola è si può dire un grande banco di sabbia coperto da poca vegetazione, e in grande parte inondato ad alta marea.
Però nel centro i nativi, o meglio. gli abitanti, vi coltivano qualche banana e yams (1), alla coltivazione dei quali sono per la più impiegate le donne, che sono schiave papuane, e fanciulli. Questi disgraziati fuggono al vedermi, e l’impressione che mi fanno è assai dolorosa. Posso dire che fin qui non ho veduto tipo umano più basso di questo. Dell’uomo in essi non vedo che un brutto ritratto fisicamente, e mi pare nulla posseggano
(1) piante erbacee con grossi tuberi ricchi di amido
di quella fierezza che può essere detta caratteristica dell’uomo. Essi in vero mi paiono ridotti allo stato di bestie da soma.
26 marzo - Stamani scesi all’isola Ceram Laut, raccogliendo alcuni pochi insetti. L’isola è anche abitata da alcuni schiavi papuani che vivono in miserabilissime case, se pure meritano tal nome.
27 marzo - Questa mane quando mi svegliai cercai cogli occhi l’isola Goram che avevamo in vista ieri sera, e alla quale eravamo già ben vicini. Ma Goram era più lungi assai da noi. Pare che durante la notte le correnti ce ne abbiano allontanato. A rompere la monotonia d’una giornata di calma, vengono delle straordinarie quantità di ikan babi o delfini, e ci fanno passare il tempo divertendoci a osservare i loro salti fuori d’acqua, talvolta prodigiosi, le loro evoluzioni e gli agili movimenti nell’onda tranquilla e trasparente.
29 marzo - Ora una leggerissima brezza appena appena lambisce le vele. Sono le forti correnti che ci allontanano da Goram? Per me dubito che almeno siano complici con la malizia e la negligenza del capitano. Questa notte alle 12, trovai che gli uomini al timone dormivano saporitamente. Tornai alle 3 e dormivano pure, infine alle 5 li trovai per la terza volta addormentati come gli Apostoli nell’Orto. Questa sera verso le 6 abbiamo cambiato rotta, e abbiamo perduto Goram di vista.
1 aprile - Alle otto si levò un poco di vento accompagnato da un poco di pioggia, e col crescere del vento principiammo a filare parecchie miglia all’ora.
Alle tre eravamo sì presso terra che principiarono anzi le manovre per ancorarci. Un piccolo prau (barca) con tre uomini ci accostò, e furono tosto intavolati discorsi, e ci si promise un uomo per Lakaia, ma io dubito assai di tutte queste belle promesse. Pare che essere bugiardi in questi paesi sia una delle più belle virtù, o almeno una delle più comuni.
2 aprile - Stamani a terra mentre ero a caccia, mi imbattei in una comitiva di sette od otto donne. Vedersi e fermarsi fu una cosa sola. Come talvolta branco di cervi, sorpreso, si ferma per un istante e poi precipitosamente fugge, così esse fecero. Dopo avermi guardato per pochi momenti con paura e meraviglia, non tornarono sui loro passi, ma di traverso giù per il dosso della collina, tutte a una fuggirono, giù per il declive. Ma poverine, n’ebbero male, perché la seconda o fallito il piede, o incespicando in qualche liana o in qualche bambù di cui il suolo era coperto, cadde, e le altre, meno l’ultima, tutte sovra essa rotolarono. La scena fu molto comica, e i fanciulli che mi seguivano ne fecero argomenti per grasse risa e motteggi, e nonostante che come Europeo sentissi il dovere di dare una lezione a questi selvaggi, cioè di insegnare a essi di non ridere del male altrui, non potei a meno di ridere con essi. Tale incidente però non interruppe la fuga, perché anzi presto rialzate più che mai fuggirono, e per alcuni momenti dopo intesi dal rumore dei bambù spezzati e dai rami agitati che le paurose continuavano a fuggire in varie direzioni, come appunto rotto branco di cervi. Nella fuga alcune avevano abbandonato quel pezzo di tela di cui avevano il corpo coperto, il che avrà messo le proprietarie in vero imbarazzo per entrare nel villaggio.
A qual sentimento, mi domando io, ubbidirono esse? È il bianco sì orribile da far tanta paura? Mi sembra che, essendo io accompagnato da nativi del paese, non avrebbero dovuto temer tanto.
3 aprile - Beccari essendo riuscito a trovar due uomini che dicono di conoscere la lingua parlata a Lakaia, fu stabilito che questa notte, al levare della luna, partiremo con essi alla volta di quel paese. Io continuai a cacciare e raccogliere alcuni begli insetti.
5 aprile - Oggi finalmente abbiamo veduto la Nuova Guinea!
Abbiamo vento forte e contrario dal sud, e questa notte continuiamo a bordeggiare.
8 aprile - Questa mane rivedemmo la terra Orange Nassau. Al calare del sole gettammo l’ancora in una bella baia, a un centinaio di metri dalla spiaggia. Pare vi siano abitanti, però per precauzione si tengono in pronto armi e munizioni. I nostri amboinesi anzi hanno tanta paura dei papuani, che si preparano a dormire accompagnati dai loro fucili.
9 aprile - Giorno memorabile! Finalmente l’ho calpestata questa terra misteriosa; finalmente saltando a terra stamani, potei esclamare: “Alla Nuova Guinea ci siamo!”
Ho cercato invano un modo infallibile per indurvi a leggere, e a commentare, questo brano, a cui tengo molto, ma non l’ho trovato. Allora vi dico le cose come stanno.
Questo libro, di cui vi propongo il primo capitolo, è il riadattamento di un libro scritto alla fine dell’ ‘800 da un mio antenato esploratore.
Ho eliminato le parti scientifiche che contengono descrizioni minuziose, lasciando le parti avventurose che penso possano interessare il lettori moderni, sperando che ci siano.
Probabilmente l’Autore si rigirerebbe nella tomba, se ne avesse una, per quello che ho fatto.
L’italiano antiquato richiede un po’ di pazienza ma, ve lo assicuro, ne vale la pena.
Grazie fin da ora per i vostri commenti.
Se saranno incoraggianti vi propinerò un altro pezzo.
CAPITOLO I
Il venticinque novembre 1871, col Dottore O. Beccari, salpammo per Bombay. Alcuni amici ci avevano accompagnato a bordo, per essere gli ultimi ad augurarci buon viaggio e buona fortuna per la nostra impresa, l’esplorazione d’un paese selvaggio, misterioso, lontano: la Papuasia. L’idea di andare in un paese dalle foreste vergini e sempre verdi, nel paese dell’estate continua, ove avrei trovato l’uomo non ancora degenerato figlio della Natura, l’uomo selvaggio allo stato primitivo, mi stava così fissa nella mente, ed esaltava tanto la mia fantasia, da farmi parere eterni i momenti necessari a un bastimento per sortire dal porto.
E prima di arrivare alla Nuova Guinea, dovevamo visitare paesi orientali, ove la vita e i costumi sono tanto differenti dai nostri, come sono le persone che costituiscono le differenti razze e le differenti popolazioni.
E anche a questo la mia fantasia si esaltava, e non andavo sognando in me che i superbi cavalli dell’arabo, i cammelli del deserto, templi e pagode, sultani e odalische.
Da Genova a Napoli, da Napoli a Messina, ove ricevemmo la nuova che il Re aveva aperto il primo Parlamento a Roma e pronunziate quelle celebri parole: “A Roma ci siamo, e ci staremo.” Finalmente fummo a Port Said, traversammo il canale di Suez, visitammo i pozzi di Aden, e salimmo sulle nude e nere sue vette.
Vidi i cammelli e i cavalli non arabi, ma dell’arabo; vidi l’arabo stesso, povero e cencioso, e le luride sue donne; vidi miseria e vizio vivere nella stessa casa, e uomini e animali come fratelli, e mi domandai: è questo l’Oriente?
Vidi l’arabo devoto salutare prostrato il sole nascente, ma lo vidi prostrarsi nel fango, e mi domandai se egli non poteva essere religioso e pulito allo stesso tempo. Mi domandai che cosa vale la religione per l’Arabo, se la sua religione non basta a toglierlo dal fango morale e materiale in cui vive. A Bombay si risvegliò in me ancora un poco di entusiasmo per l’Oriente, e vidi la torre del Silenzio, e le torme degli avvoltoi roteare nell’aria, aspettando il pasto giornaliero.
E poi, a Point de Galles, penetriamo nelle selve di palme, nelle pianure, nelle paludi, e per la prima volta vedo sedici scimmie, libere e indipendenti, vivere alle spese dell’uomo che coltiva la terra, e del quale esse rubano i frutti.
Vedemmo la gente laboriosa e industre, ma vizio e miseria naturalmente serpeggiano ovunque.
Da Singapore a Giava, da Batavia a Buitenzorg, da Buitenzorg a Sinanlaya, sul Pangarango, l’antico vulcano.
Da Giava a Macassar, a Timor Dili e Coupang, passando per lo stretto di Flores, uno dei siti più pittoreschi che io abbia mai veduto.
Da Timor a Banda, da Banda ad Amboina, la capitale delle Molucche.
Da Amboina, dopo una traversata di circa 24 ore, sotto un diluvio di pioggia giungemmo a Whahai. A bordo vi era il Residente di Amboina. Una folla di gente lo aspettava allo scalo per complimentarlo, e, quando scese a terra, principiò una musica assai strana, poiché gli strumenti erano gong di tutta le dimensioni. Due o tre dozzine di guerrieri ballerini, o ballerini guerrieri, facevano ala al suo passaggio, vestiti all’orientale, cioè con turbante rosso, tuniche bianche e piedi nudi. Nella destra tenevano un parang, o grosso coltellaccio, e nella sinistra un piccolo scudo. Agitando scudo e coltello, e contorcendo la persona in mille guise, precedevano il grande personaggio. Bello e grottesco a un tempo era lo spettacolo, e il sole faceva brillare le terse lame dei coltelli. In quell’accoppiamento di tanti vivi colori, in quei moti, in quei gesti, c’era qualche cosa di fantastico, di singolare, e di nuovo per me non abituato a scene simili.
Circa 14 rajah, o capi di altrettante tribù di cui si compone il villaggio, facevano seguito al residente. Arrivati a una casa, posta in fondo a un lungo viale, il residente si assise sopra una specie di trono, contornato da tutti i notabili del paese. La musica continuava ad assordarci, ma a un cenno del residente tacque, e finirono le danze. Tra questi rajah ve ne era di tutte le qualità. Alcuni erano vestiti mezzo alla turca mezzo all’europea, alcuni con scarpe, alcuni senza. V’erano certi abiti un tempo già neri, ma ora rossicci o verdognoli, che certo non erano stati tagliati per il dosso di chi li portava. Ma questo messo da parte, osservai che, per lo più, erano tutti netti negli abiti e nella persona. V’erano anche cappelli a cilindro, che offrivano tutte le gradazioni dei colori, e per le loro forme potevano reclamare un’antichità forse anteriore alla celebre antica Corona di ferro. Essi, come la Corona d’Italia, certo passarono di generazione in generazione.
Finalmente giunse l’alba del 21 marzo. La bandiera italiana sventola all’albero del piccolo schooner che abbiamo noleggiato per portarci a Outanata. Il suo nome è ‘Burong Laut’ , ovvero l’uccello del mare!
Ci accompagnarono a bordo alcuni signori e signore di Amboina, per darci il buon viaggio; si ruppero alcune bottiglie di champagne per benedire il bastimento e poi, dopo molte strette di mano, prendemmo congedo.
Il venticinque, dopo essere passati al sud dell’isola di Ceram, giungemmo alla piccola isola Ghesser. L’isola è si può dire un grande banco di sabbia coperto da poca vegetazione, e in grande parte inondato ad alta marea.
Però nel centro i nativi, o meglio. gli abitanti, vi coltivano qualche banana e yams (1), alla coltivazione dei quali sono per la più impiegate le donne, che sono schiave papuane, e fanciulli. Questi disgraziati fuggono al vedermi, e l’impressione che mi fanno è assai dolorosa. Posso dire che fin qui non ho veduto tipo umano più basso di questo. Dell’uomo in essi non vedo che un brutto ritratto fisicamente, e mi pare nulla posseggano
(1) piante erbacee con grossi tuberi ricchi di amido
di quella fierezza che può essere detta caratteristica dell’uomo. Essi in vero mi paiono ridotti allo stato di bestie da soma.
26 marzo - Stamani scesi all’isola Ceram Laut, raccogliendo alcuni pochi insetti. L’isola è anche abitata da alcuni schiavi papuani che vivono in miserabilissime case, se pure meritano tal nome.
27 marzo - Questa mane quando mi svegliai cercai cogli occhi l’isola Goram che avevamo in vista ieri sera, e alla quale eravamo già ben vicini. Ma Goram era più lungi assai da noi. Pare che durante la notte le correnti ce ne abbiano allontanato. A rompere la monotonia d’una giornata di calma, vengono delle straordinarie quantità di ikan babi o delfini, e ci fanno passare il tempo divertendoci a osservare i loro salti fuori d’acqua, talvolta prodigiosi, le loro evoluzioni e gli agili movimenti nell’onda tranquilla e trasparente.
29 marzo - Ora una leggerissima brezza appena appena lambisce le vele. Sono le forti correnti che ci allontanano da Goram? Per me dubito che almeno siano complici con la malizia e la negligenza del capitano. Questa notte alle 12, trovai che gli uomini al timone dormivano saporitamente. Tornai alle 3 e dormivano pure, infine alle 5 li trovai per la terza volta addormentati come gli Apostoli nell’Orto. Questa sera verso le 6 abbiamo cambiato rotta, e abbiamo perduto Goram di vista.
1 aprile - Alle otto si levò un poco di vento accompagnato da un poco di pioggia, e col crescere del vento principiammo a filare parecchie miglia all’ora.
Alle tre eravamo sì presso terra che principiarono anzi le manovre per ancorarci. Un piccolo prau (barca) con tre uomini ci accostò, e furono tosto intavolati discorsi, e ci si promise un uomo per Lakaia, ma io dubito assai di tutte queste belle promesse. Pare che essere bugiardi in questi paesi sia una delle più belle virtù, o almeno una delle più comuni.
2 aprile - Stamani a terra mentre ero a caccia, mi imbattei in una comitiva di sette od otto donne. Vedersi e fermarsi fu una cosa sola. Come talvolta branco di cervi, sorpreso, si ferma per un istante e poi precipitosamente fugge, così esse fecero. Dopo avermi guardato per pochi momenti con paura e meraviglia, non tornarono sui loro passi, ma di traverso giù per il dosso della collina, tutte a una fuggirono, giù per il declive. Ma poverine, n’ebbero male, perché la seconda o fallito il piede, o incespicando in qualche liana o in qualche bambù di cui il suolo era coperto, cadde, e le altre, meno l’ultima, tutte sovra essa rotolarono. La scena fu molto comica, e i fanciulli che mi seguivano ne fecero argomenti per grasse risa e motteggi, e nonostante che come Europeo sentissi il dovere di dare una lezione a questi selvaggi, cioè di insegnare a essi di non ridere del male altrui, non potei a meno di ridere con essi. Tale incidente però non interruppe la fuga, perché anzi presto rialzate più che mai fuggirono, e per alcuni momenti dopo intesi dal rumore dei bambù spezzati e dai rami agitati che le paurose continuavano a fuggire in varie direzioni, come appunto rotto branco di cervi. Nella fuga alcune avevano abbandonato quel pezzo di tela di cui avevano il corpo coperto, il che avrà messo le proprietarie in vero imbarazzo per entrare nel villaggio.
A qual sentimento, mi domando io, ubbidirono esse? È il bianco sì orribile da far tanta paura? Mi sembra che, essendo io accompagnato da nativi del paese, non avrebbero dovuto temer tanto.
3 aprile - Beccari essendo riuscito a trovar due uomini che dicono di conoscere la lingua parlata a Lakaia, fu stabilito che questa notte, al levare della luna, partiremo con essi alla volta di quel paese. Io continuai a cacciare e raccogliere alcuni begli insetti.
5 aprile - Oggi finalmente abbiamo veduto la Nuova Guinea!
Abbiamo vento forte e contrario dal sud, e questa notte continuiamo a bordeggiare.
8 aprile - Questa mane rivedemmo la terra Orange Nassau. Al calare del sole gettammo l’ancora in una bella baia, a un centinaio di metri dalla spiaggia. Pare vi siano abitanti, però per precauzione si tengono in pronto armi e munizioni. I nostri amboinesi anzi hanno tanta paura dei papuani, che si preparano a dormire accompagnati dai loro fucili.
9 aprile - Giorno memorabile! Finalmente l’ho calpestata questa terra misteriosa; finalmente saltando a terra stamani, potei esclamare: “Alla Nuova Guinea ci siamo!”
Luigi Maria d’Albertis (1841-1901), fu esploratore e studioso di scienze naturali. Viaggiò in Nuova Guinea tra il 1871 e il 1877, raccogliendo un numero impressionante di nuove specie di animali e di piante.
Nell’ultimo viaggio era da solo con un equipaggio di nativi e di cinesi, che risultarono per lui minacciosi quasi quanto gli abitanti dell’isola, dai quali di difendeva con mezzi fantasiosi e rocamboleschi. I suoi diari vennero pubblicati nel 1880 con il titolo “Alla Nuova Guinea, quello che ho veduto e quello che ho fatto”.
La versione ridotta è ora disponibile sia in italiano che in inglese.