Beltigre viveva pacifico e beato in una casa nel parco.
Aveva tutto quanto potesse desiderare un gatto: ampi davanzali sui quali appisolarsi pigramente al sole, una cucina grande con un camino di mattoni rossi refrattari che conservano a lungo il calore, due letti matrimoniali dove si divertiva come un pazzo a far dispetti alla padrona quando rassettava la stanza.
La mattina era solito infilarsi tra il materasso e le lenzuola mentre Clara sistemava il letto. Guardare quei teli nell’aria, scattare e arrivare sul materasso un attimo prima del lenzuolo per far sì che questo lo coprisse avvolgendolo tutto, era uno dei suoi giochi preferiti. Clara le prime due o tre volte lo lasciava fare, poi spazientita lo prendeva e lo posava a terra per finire di sistemare la camera. Impresa ardua! Beltrigre al contatto della zampetta sul pavimento, con uno slancio felino saltava nuovamente sopra ostacolandola nel lavoro.
Il giardino, l’orto, la macchia poi erano il suo mondo, così come la terrazza coperta da una pergola d’uva galletta, il campetto laterale con l’altalena e il mandorlo, il cui tronco era un’ottima lima per le unghie. Pochi scalini portavano al frutteto, e solamente quando aveva voglia, si dilettava a cacciare.
Una sera, mentre stava rientrando in casa, s’imbatté in una serpe che lo aggredì. Alzò il pelo e iniziò a soffiare, quindi i due si avvinghiarono e combatterono. La lotta fu serrata, ma alla fine Beltigre riuscì a primeggiare. Morente e ancora calda, la prese in bocca e la donò come trofeo alla padrona che spaventata lo ringraziò urlando: “ Una vipera! Dio, una vipera!”. Miagolando rispose: “ Tanta agitazione per una misera biscia?”
Tuttavia, nonostante le comodità e i pasti assicurati, Beltrige sognava di vivere altrove, in una comunità piena di gatti, senza essere soggetto ad alcun padrone. A lui piaceva la compagnia. Non che discorresse molto, ma era un gatto curioso, attivo, e la vita di campagna, che aveva conosciuto sin dalla più tenera età, gli andava stretta. Più volte, si era allontanato e con calma, passo dopo passo e senza furia, aveva raggiunto il paese arroccato in collina.
Gli piaceva entrare nell’abitato. Camminare a coda ritta nelle strade principali lo faceva sentire adulto e libero. Saliva le scalinate lasciando che il calore o il gelo delle lastre entrasse nel suo corpo e si affacciava alle porte aperte per vedere chi c’era ed osservare scene familiari: bambini che guardavano la televisione, ragazze con in testa cuffie che producevano un rumore quasi musicale, uomini che leggevano il giornale, donne ai fornelli, vecchie che sgranavano chicchi di Rosario.
Il luogo che più lo attirava era la piazza dove vi erano dai negozi d’ogni tipo, bar, pizzerie, ristoranti. Regolarmente veniva cacciato dai commercianti, ma un oste lo lasciava entrare e lui si stendeva con la schiena appoggiata al muro per ascoltare le storie che i clienti raccontavano.
Insomma avrebbe preferito abitare in paese e non nella casa del parco.
Pensa e ripensa, un giorno decise di scappare da casa definitivamente per vivere libero come aveva sempre sognato. Si avvicinò a Clara che, ignara delle sue intenzioni, lo carezzò sulla testa, poi dette un ultimo sguardo alla casa e partì. Durante il tragitto rimuginava su quanto lasciava e sul futuro, ma non ebbe pentimenti. Certo gli sarebbero mancate le coccole di Clara, i pranzi assicurati, ma il desiderio di decidere di se stesso era più forte di lui.
In paese, non fu semplice essere accolto dagli altri membri. Dovette combattere, azzuffarsi con i gatti che controllavano le varie zone. Uscì malconcio da una lotta con un esemplare enorme e nero, ma non si arrese e la sua caparbietà e la sua fierezza lo portarono ad essere accettato.
L’assemblea dei felini, riunitasi in uno spiazzo sopra l’abitato, lo nominò padrone effettivo di un piccolo vicolo chiamato La loggia che diventò la sua casa.
Di buon’ora stirava le zampe, si ripuliva, leccandosi con calma ogni centimetro del corpo, sbadigliava e poi andava al primo appuntamento della giornata, quello con il pescivendolo che giungeva a bordo di un furgoncino seguito da un pugno di mosche. Se la situazione gli era favorevole, dopo poco Beltigre aveva già consumato la colazione, altre volte doveva attendere a lungo, ma raramente rimaneva a pancia vuota. Soddisfatto passeggiava per digerire e passava il tempo chiacchierando con gli altri paesani. E poi…. poi c’era Rosina, una gatta snella, dal portamento elegante, rossa come il fuoco che lo intrigava a tal punto che per lei si ritrovò a miagolare notti intere tanto da rimediare delle docce fredde provenienti dalle finestre del vicinato.
Più volte Clara lo aveva cercato e più volte lo aveva riportato nella casa nel parco, ma a Beltigre veniva la malinconia, non aveva voglia neppure di giocare. Spesso si aggomitolava sotto un piccolo tavolo di vimini coperto da un telo e sognava le strade, la loggia, gli amici e Rosina.
Anche Clara si accorse che Beltigre non aveva più interessi, era insoddisfatto e quando lui andò via per l’ennesima volta lo lasciò libero. Se s’incontravano in paese, Beltigre si avvicinava alla sua gamba e si strusciava facendo le fusa, riconoscente per la libertà che la donna gli aveva regalato
A Clara non restò che una foto dove l’aveva immortalato con una zampa appoggiata sopra la ciotola d’acciaio, la foto di un gatto di nome Beltigre, che aveva rinunciato ad abitare in una casa con ogni comodità per trasferirsi nella fredda loggia del vicino paese in nome della libertà.