M. Gisella Catuogno
Violeta

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Titolo Violeta
Autore M. Gisella Catuogno
Genere Racconti Brevi      
Dedicato a
tutte le "Violete" delle nostre famiglie
Pubblicata il 14/09/2007
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Scritta il 13/09/2014  
Punteggio Lettori 24
Violeta mi raccontava di essere nata in un posto che per lei era il più bello del mondo: un altopiano non lontano dai Carpazi, nel 1970. Di giugno quella terra diventava bionda di spighe mature, gravide di grano dorato, ondeggianti al vento come il mare increspato dal maestrale, e lei correva ai bordi di quella meraviglia, insieme ai suoi fratelli, inebriandosi del profumo di buono che emanava, e cogliendo mazzi di papaveri scarlatti da regalare a sua madre, al ritorno dai campi.
Virginia e Alexandru, i genitori, erano persone semplici e dignitose: sgobbavano dalla mattina alla sera nella loro campagna, dietro alle colture e agli animali, una mucca, qualche maiale, galline, oche e tacchini. Parte della loro produzione era requisita e andava a aumentare quella dei Kolkoz, di anno in anno sempre più rapaci, almeno secondo loro.
Erano comunque orgogliosi della famiglia che avevano creato: cinque figli, tre maschi e due femmine, tutti sani e robusti, proprio come li voleva lo Stato, che quattro anni prima aveva proibito l’aborto e qualsiasi forma di contraccezione, per aumentare la natalità e far diventare la Romania un Paese forte, potente. Così anche loro si erano ritrovati ad avere più figli di quanti pensassero e tirarli su non era stato uno scherzo: ma la Provvidenza aveva dato una mano. Certo, ora che Violeta, la più grande aveva dieci anni e il più piccolo, Yari, solo uno, avevano giurato a se stessi di non generarne più, a costo di rinunciare al sesso. Ma era difficile con quel desiderio che li sfiniva e che costituiva il loro unico piacere e svago. L’allattamento aiutava Virginia perché quelle mammelle piene e i capezzoli gocciolanti la preservavano, così sperava, da altre gravidanze. Ma ormai lo svezzamento era cominciato, le poppate si stavano diradando e lei aveva una paura matta di restare incinta ancora una volta. Per le feste, a Natale, a Capodanno e il giorno dell’Epifania, quando si ritrovavano con parenti ed amici, tra le donne di casa si sussurravano storie tremende di aborti clandestini che erano costati, oltre che tanto denaro e il rischio della galera, mutilazioni, emorragie, e talvolta la vita. Si raccontava di orfanatrofi strapieni di bambini che i genitori erano stati costretti a far nascere ma che avevano comunque rifiutato, si bisbigliava dei tantissimi casi di AIDS che il governo non voleva riconoscere come tali e che perciò facevano dilagare a macchia d’olio la malattia.
L’ascolto casuale o voluto di brandelli di tali conversazioni inquietavano oltremodo Violeta, che oscuramente intuiva la potenza misteriosa di quel sesso che dominava spesso le vite di uomini e animali. Ma erano solo momenti: poi, la voglia di gioco, di innocente divertimento, di serenità prendevano il sopravvento e l’età infantile la portava a correre a perdifiato tra i campi, con la sorellina più piccola, a giocare all’altalena, a baloccarsi con le bambole, a guardare felice il profilo di quei monti che si tingevano di rosso al tramonto, a curare qualche gattino sofferente o riportare nel nido un uccellino caduto, a perdersi nel mondo incantato delle fiabe, fino a sognare a occhi aperti nel cielo trapunto di stelle di certe nitidissime notti d’estate.
La lettura era tra i suoi passatempi preferiti, anche se di tempo Violeta non ne aveva molto, tra la scuola e l’aiuto da dare a babbo e mamma nei campi, nella stalla, nel frutteto o con i fratellini.
Per recarsi a scuola doveva raggiungere a piedi la fermata più vicina dell’autobus: erano un paio di km. da fare con qualsiasi tempo, d’autunno con la pioggia e d’inverno con la neve, ma per lei costituivano lo scotto da pagare al piacere dell’apprendere, del conoscere sempre nuovi argomenti che le permettevano di dipanare un po’ più agevolmente l’intricata matassa della realtà, collocando al giusto posto i suoi vari elementi ed evitando confusione e sovrapposizioni. Come una messa a fuoco sempre più nitida da parte di un binocolo ben regolato. Ora sapeva la ragione dell’alternanza delle stagioni, della collocazione della Terra nel Sistema solare, di questo nella Via lattea e di essa nell’universo; ora conosceva il perché dei tuoni, dei lampi, dei fulmini e come mai gli animali siano già così inquieti prima del loro arrivo; ora conosceva la storia del suo Paese e della sua romanizzazione profonda che faceva del rumeno l’unica lingua neolatina dei paesi dell’Est. Sapeva e si sentiva più sicura, anche se la timidezza era innata e non c’era verso di ripetere la lezione o di ricevere un complimento per i suoi occhi neri, per il suo bel viso pensieroso, senza arrossire fino alla radice dei capelli. Ma la razionalità non spiegava tutto e non arrivava a cancellare la paura che le ispiravano i racconti sul misterioso e diabolico conte Dracula, sulla sua sete di sangue e di dominio; né limitava il suo grande anelito spirituale, la religiosità che per lei era luce e conforto. Che pace e che beatitudine assistere in chiesa, seppure in sordina, quasi di nascosto, per non irritare il regime, ai lunghi e fastosi riti ortodossi, così lontani dalla fretta e dalla povertà della sua casa. Quando era lì si sentiva protetta, sembrava che niente potesse succederle.
La mamma era tanto cara con lei…le raccomandava lo studio, l’istruzione, cercava di evitarle tutte le incombenze che le impedivano di prepararsi per un compito, per un’interrogazione. Le diceva che se si fosse preso un diploma non avrebbe dovuto come lei sgobbare sui campi dalla mattina alla sera e avrebbe potuto “scegliere”, senza essere vittima dell’ignoranza propria e della furbizia altrui. E poi, da qualche mese, cercava di dirle, meglio che poteva, cosa le sarebbe successo: il sangue mensile, l’ovulazione, con la raccomandazione di stare attenta ai ragazzi, di non farsi “fregare”, di non restare incinta prestissimo come era successo a lei. Violeta si sentiva a disagio a questi discorsi e guardava con preoccupazione al suo corpo che si trasformava : il bocciòlo dei seni, la peluria sul pube, la morbidezza dei fianchi. Ma quando le mestruazioni arrivarono, era pronta.
Le ristrettezze in famiglia si facevano sentire e inducevano a fare con più devozione che mai la preghiera ai pasti, preceduta da quel segno della croce con le tre dita unite, che ricordava il mistero della Trinità: “Dacci il nostro pane quotidiano” pensava ognuno, col capo chino sul piatto.
Violeta, al termine della scuola dell’obbligo, grazie ai suoi bei voti, fu aiutata dallo stato e poté iscriversi a una scuola tecnica. Per lei cominciava una nuova esperienza culturale e personale: si era fatta una bella ragazza e non le mancavano gli ammiratori. Ma lei pensava solo allo studio e ad aiutare la famiglia: Virginia, infatti, indebolita dal carico di lavoro, non ce la faceva più ad essere attiva come prima e Alexandru, sentendosi mancare la terra sotto i piedi per la scarsa salute della moglie, era entrato in crisi ed aveva cominciato a bere. Che spettacolo squallido vederlo rientrare ubriaco, la sera, dopo il giro delle bettole, e costringere la moglie a rapporti violenti e frettolosi, che invano lei cercava di soffocare perché i figli non se ne accorgessero.
Violeta non ci dormiva la notte e riempiva di lacrime il cuscino.
Eppure il tempo passava: l’alba continuava a lambire le vette dei monti e rischiararle, fugando le ultime ombre, i frutti maturavano sugli alberi e le mèssi nei campi, il vento scompigliava i capelli e il bucato teso a asciugare, il ciclo della vita sostituiva i vecchi con l’innocente tenerezza dei neonati. Alla televisione e alla radio si sentivano notizie rassicuranti sulla Romania, il suo destino di grandezza, il suo ruolo nel mondo; Ceausescu continuava a presentarsi agli occhi della sua gente come il salvatore della patria. Ma Violeta e la sua famiglia sapevano che non era così e quotidianamente toccavano con mano una scontentezza destinata a deflagrare di lì a poco. La Romania era una grande pentola a pressione pronta ad esplodere perché da troppo tempo non c’era più valvola di sfogo.
Intanto però per la ragazza era la stagione dell’amore, che troppo a lungo, anzi, aveva fatto tacere, per gli impegni quotidiani, l’innata riservatezza, il disgusto che le provocava suo padre ubriaco quando si avvicinava alla moglie, pretendendo da quella donna ormai disamorata, quello che lui chiamava il “debito coniugale”: una sera Virginia era tornata pallida e strana da un viaggio in città, accompagnata dal marito e da un amico di famiglia, che si era offerto di accompagnarli, e Violeta aveva capito che sua madre era andata a abortire il suo sesto indesiderato figlio. Non le disse nulla, ovviamente, ma l’abbracciò forte e piansero insieme a lungo.
Da qualche tempo c’era Yari che le faceva la corte: era un bel ragazzo alto e biondo, frequentavano nella stessa classe l’ultimo anno delle superiori: spesso studiavano insieme, si aiutavano, nell’intervallo si dividevano quel che si erano portati da casa, un panino col burro o con la marmellata, qualche mela. Anche lui era figlio di contadini e la sua casa non era lontana.
Un pomeriggio la invitò: le disse che i suoi non c’erano e che potevano stare soli. Da mesi ormai il desiderio li possedeva, ma si erano limitati a qualche bacio, a qualche lieve contatto. Violeta si preparò con cura, indossò la sua biancheria migliore e un vestito di lana che sottolineava la morbidezza delle forme. Era la prima volta, almeno per lei. Non andò male, perché lui fu tenero e esperto, ma la sensazione più forte fu il breve intenso dolore per la perdita della sua verginità: non riuscì a godere, non sentendosi all’altezza delle aspettative di lui, ma le rimase addosso una tenerezza struggente per quel ragazzo che l’aveva fatta donna, finalmente.
A giugno entrambi superarono l’Esame di Stato e divennero dei tecnici commerciali. Avrebbero forse ottenuto un buon posto di lavoro.
Era il 1989, l’anno dell’esplosione della rivolta popolare. Il malcontento in tutto il Paese era enorme: in città le botteghe alimentari erano vuote ma costituivano lo stesso la disperata mèta di file lunghissime di persone, dolorosi pellegrinaggi di gente alla ricerca di pane, di latte, di carne. E tutto questo mentre la televisione mostrava Ceausescu che entrava in negozi pieni di ogni ben di Dio e decantava l’“alta qualità” della vita raggiunta sotto la sua guida esperta; o trasmetteva la lista dei Kolkoz che avevano raggiunto dei veri e propri record nel raccolto mentre gli agricoltori sapevano bene che non era così e, anche se nelle campagne nessuno moriva di fame, tutti però tiravano la cinghia.
Violeta e Ioan, il suo ragazzo, decisero comunque di sposarsi quell’anno: non avrebbero fatto nulla, perché i tempi erano grami, ma sarebbero andati a vivere insieme e questo li consolava di tutto, soprattutto di situazioni familiari, come quelle della ragazza, divenute quasi insopportabili. Avevano ottenuto dallo Stato due posti di lavoro modesti ma dignitosi, nell’amministrazione del distretto d’appartenenza della città dove si erano trasferiti, che permettevano loro di vivere. La casa che avevano avuto disponeva soltanto di due stanze, una camere e una cucina, e di un piccolissimo bagno, ma per loro era una villa: si amavano e questo trasformava la bruttezza in mediocrità e la mediocrità in bellezza.
La cerimonia nuziale, con la sposa vestita dell’abito bianco prestato da un’amica e lo sposo che indossava il completo blu del matrimonio di suo padre, venticinque anni prima, fu semplice e emozionante: Violeta era bellissima nella sua acconciatura ornata di bocciolini di rosa e il velo di tulle sul viso, Ioan poi era lo splendido ragazzo di sempre a cui l’ansia del momento attribuiva una gravità già da futuro capofamiglia. Il pranzo di nozze, malgrado la ristrettezza dei tempi fu all’altezza dell’importante momento che si stava vivendo: Virginia e Alexandru si erano fatti in quattro per festeggiare quella loro prima figlia che si sposava e tra musica, balli, vino e piatti gustosi ci si scordò della miseria e dei problemi quotidiani.
Il viaggio di nozze fu brevissimo ma indimenticabile: tutti e due desideravano il colore del mare a coronamento del loro amore e così scelsero una deliziosa località sul Mar Nero; ma solo per qualche giorno, grazie ai soldi ricevuti come dono di nozze. Era maggio, ancora la stagione balneare non era cominciata e la sensazione che quell’acqua, dove il sole si tuffava frantumandosi in un brillio senza fine; quelle barche dondolanti ancorate al porticciolo come tanti scrigni aperti a chissà quali tesori; quei profumi acuti e deliziosi, al tempo stesso, esistessero esclusivamente per loro, li accompagnò costantemente per tutta la luna di miele. Se la felicità esiste, loro erano felici: appagati nel corpo, per i lunghi estenuanti, dolcissimi amplessi di quelle notti bianche in cui Violeta finalmente aveva imparato a muoversi in armonia col suo uomo, per raggiungere insieme il massimo del piacere; e appagati nello spirito, perché quasi mai le due sensazioni sono separate e la compiutezza della corporeità rende più affinato, ricettivo e sublime anche l’intelletto.
Passarono i mesi e la situazione politico-economica era sempre più critica: bastava una miccia per far esplodere la rivoluzione ed abbattere, come era accaduto a Berlino un mese prima, il muro dell’autoritarismo, della violenza, della menzogna che opprimeva il popolo. La miccia fu accesa in una fredda giornata di invernale, a ridosso del Natale: il 16 dicembre a Timisoara tutto ebbe inizio con la protesta dei parrocchiani contro il trasferimento forzato di un pastore riformato. Ai fedeli che manifestavano il loro dissenso, si unirono i passanti e in poco tempo, come in un gigantesco passaparola, la protesta si estese, andando ben al di là delle motivazioni per cui era cominciata. Nel centro della città si raccolsero decine di migliaia di persone. Il regime rispose e fu un bagno di sangue. Ma ormai non si tornava più indietro: qualche giorno dopo la città si liberò dalla dittatura comunista e fu la prima in Romania; una settimana più tardi il regime di Ceausescu crollò su se stesso, come un castello di carte durato anche troppo a lungo. Cominciava la difficile, tormentata democrazia.
Violeta e Ioan avevano vissuto con sentimenti contrastanti quei convulsi avvenimenti: aspettavano, come tutti, la svolta, l’evoluzione che sentivano nell’aria come una corrente elettrica, ma ne avevano anche timore. Erano nati sotto il regime, erano stati educati al culto della personalità del “Capo”, del “Salvatore della patria”, ed ora che il Paese impazziva alla notizia della sua fine, erano eccitati e contenti, ma si sentivano anche stranamente orfani di un padre crudele, ma pur sempre padre. Che sarebbe accaduto ora? Sarebbe stato possibile un passaggio soft verso nuove istituzioni, veramente espressione di ideali di libertà e di fratellanza? O non sarebbero emersi invece gli istinti peggiori, quelli dell’individualismo più sfrenato, della ricchezza facile a qualunque costo, della disuguaglianza sociale giustificata dal mito del “self made man”, che la dittatura aveva in qualche modo, seppure rozzo e brutale, soffocato, insieme alla legittima aspirazione alla proprietà privata, alla possibilità di critica, alla scelta della classe dirigente da cui farsi governare? Sarebbe continuato ad esistere comunque uno straccio di welfare? O sarebbe invece cominciata, dopo l’ubriacatura iniziale, la rincorsa dei furbi, dei senza scrupoli, degli arrampicatori, a danno di tutti gli altri?
Di questo parlavano la sera, a letto, i due giovani, quasi indifferenti per settimane al richiamo dei sensi perché più eccitante era parlare di politica.
Poi, nei mesi successivi, l’inizio della crisi che doveva travolgerli: il processo di liberalizzazione in atto metteva tutto in discussione, anche i posti di lavoro che lo Stato aveva garantito. Sotto il “conducator” scarseggiavano i più comuni generi alimentari ma tutti avevano un posto; con la fine del comunismo moltissime famiglie si ritrovarono senza un impiego. I più intraprendenti velocemente si adeguarono, cominciando a formare quel nucleo di classe media, che sotto Ceausescu era mancata, ma i più poveri diventarono ancora più poveri. Tanti genitori, impossibilitati a mantenere i figli, li abbandonarono negli “orfenilat”: molti di questi minori, non trovando strutture ché si occupassero di loro, finirono sbandati ed andarono a formare quell’esercito dei “bambini di Bucarest”, che ha per porta di casa il tombino della strada.
La razionalizzazione, come veniva eufemisticamente chiamata, sconvolgeva dunque certezze e acquisizioni: Violeta e Ioan si ritrovarono entrambi disoccupati e anche l’appartamento dove abitavano venne loro sottratto. Diventava impossibile rimanere in città, se non trovavano un’altra occupazione. Si adattarono ai lavori più umili, anche di grande fatica. Violeta, che era incinta, resistette miracolosamente sia sul piano fisico che psicologico, e riuscì a portare a termine senza grossi problemi la gravidanza: le nacque un bel bambino, che chiamò Emil, come il padre di Ioan . Il marito invece si lasciò andare alla deriva, lambì il grigio continente della depressione e cominciò a bere, passando, senza durare più di qualche settimana, da un lavoro all’altro. La moglie inutilmente cercava di spronarlo a reagire, in nome del loro amore e di quel figlio che ne era il frutto: lui sembrava sempre più lontano, appartenente ormai ad un’altra dimensione. I soldi non bastavano più per vivere in città e la ragazza non ebbe altra scelta che ritornare in campagna dai suoi, all’ombra di quelle montagne dove almeno al suo Emil non sarebbe mai mancato da mangiare. Ioan non volle seguirli, disse che li avrebbe raggiunti più tardi, ma Violeta sapeva che l’avrebbe perso: già da molti mesi non la cercava più e lei sospettava avesse un’altra. Così miseramente, nel più classico dei modi, naufragava il loro matrimonio! Che pena! Che squallore!
A casa, ritrovò l’affetto della mamma e dei fratelli rimasti, il profumo della sua infanzia e adolescenza, il sapore dei sogni che a lungo aveva coltivato e che ora miseramente si frantumavano. Pianse tutte le sue lacrime, ma, siccome, oltre ad essere intelligente e sensibile, era anche realistica e concreta, se le asciugò in fretta e decise che, a qualunque costo, malgrado tutto, avrebbe dato un senso alla sua giovane vita e a quella di suo figlio.
Non si pativa la fame, a casa sua, ma la mancanza di tutto il resto sì! La liberalizzazione aveva abolito anche l’assistenza sanitaria garantita a tutti e quel poco che si guadagnava col lavoro dei campi, serviva a mala pena a far fronte all’emergenza. Occorreva prendere una decisione.
Sapeva che, con la caduta del comunismo anche in URSS, si erano create analoghe sacche di povertà in quasi tutti i Paesi che erano stati costretti sotto il suo largo e ingombrante ombrello protettore ed aveva notizia di un flusso migratorio sempre più consistente di ragazze, di donne, che abbandonavano le loro case per andare a lavorare in Occidente, Francia, Italia, Germania: in quei luoghi infatti c’era una grossa domanda di manodopera femminile per i lavori domestici e soprattutto per la cura dei vecchi. In Romania, gli anziani non erano moltissimi: le scarse risorse erano destinate soprattutto ai giovani, come è comprensibile anche se penoso.
Violeta decise di fare la grande scelta: partire, lasciare suo figlio, la sua famiglia, un marito che non la voleva più per andare in cerca di un guadagno che le permettesse di garantire un futuro a se stessa, a Emil, di curare sua madre che doveva operarsi, di costruirsi una casa tutta sua e poter dire: “L’ho fatta da me, col sudore della mia fronte, con queste mani che forse erano degne di lavori più leggeri, con questi occhi che hanno letto tanto e forse meritavano di non guardare soprattutto pavimenti da lavare e poveri corpi da accudire. Ma ogni lavoro è degno e un giorno ritornerò all’ombra dei miei monti.”
Così partì Violeta, ricacciando le lacrime in gola, guardando suo figlio sorridente in braccio alla nonna, lasciando per la prima volta il suo Paese bello e disgraziato.

Entrò nella mia vita un giorno di marzo, all’inizio della primavera, come una rondinella spaurita dopo un viaggio interminabile: fu subito feeling tra noi. Capii da quello sguardo vivo e mite, da quel sorriso dolce e malinconico che persona era. Le affidai mia madre quasi inferma, di cui divenne l’angelo custode. Diventò la sorella che non ho.




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