Titolo | Qualità e inquinanti | ||
Autore | Mauro Scardovelli | ||
Genere | Consapevolezza e crescita personale | ||
Pubblicata il | 21/07/2008 | ||
Visite | 21497 | ||
Punteggio Lettori | 30 | ||
Editore | Liberodiscrivere® edizioni | ||
Collana | Aleph N. 9 | ||
ISBN | 9788873881773 | ||
Pagine | 162 | ||
Prezzo Libro | 13,00 € | ![]() |
ISBN EBook | 9788899137632 | ||
Prezzo eBook |
5,99 € |
Come esseri umani, abbiamo il potere di immaginare e creare la realtà del mondo in cui viviamo. In ogni momento, in ogni circostanza, attraverso i nostri pensieri, emozioni, parole ed azioni, possiamo decidere di promuovere distruzione e infelicità o armonia e benessere.
Ma da dove origina questo potere? Dalla capacità di distinguere con chiarezza tra inquinanti della mente – orgoglio, fede negativa, giudizio, disprezzo ecc. – e qualità dell’essere – umiltà, amore, gratitudine, coraggio, generosità ecc. –. E nella scelta di praticare queste ultime, rinunciando agli inquinanti, radicati nella nostra immagine narcisistica ed egoica.
1. Conversazione introduttiva
Qualità e inquinanti saranno l’argomento della nostra conversazione, uno dei temi filosofici più importanti. Tema etico che, se avessimo a cuore l’integrità e la salute dell’essere umano, sarebbe al centro della nostra educazione, dalla prima elementare fino all’uni-versità.
Amore, gratitudine, compassione, rispetto, accettazione, umiltà, integrità, sono qualità dell’essere. Disprezzo, ostilità, giudizio, criticismo, orgoglio, sono inquinanti della mente. Le prime da coltivare come fiori. I secondi da evitare come veleni. Le prime ci fanno star bene. I secondi ci fanno ammalare, psichicamente e fisicamente. Sia come individui, che come società. Come virus, essi si spargono intorno a chi li pratica. Sono contagiosi: non è facile restarne immuni.
“Sono esperienze che incontriamo ogni giorno nella nostra vita, come il caldo o il freddo!”
Se guardiamo in superficie, sembra un discorso banale, al limite dell’ovvio. Forse per questo non è quasi mai stato considerato degno oggetto di studio dalla psicologia occidentale. Nessun libro che ho letto per l’università conteneva una sola parola su argomenti come la compassione o la gratitudine, l’umiltà o l’orgoglio. Eppure sono temi centrali della nostra esistenza, perché hanno a che fare con la nostra personalità e la nostra relazione con gli altri. E hanno a che fare con la nostra propensione verso la felicità o l’infelicità.
La nostra psicologia ha volentieri lasciato questi argomenti ad altre discipline, come la religione o l’educazione. Dopo Freud, ha preferito occuparsi di aspetti più nascosti, che stanno dietro ai fenomeni, e ne sovradeterminano la comparsa.
“Puoi fare qualche esempio?”
Un narcisista non è certo una persona umile, e facilmente pratica e teme la critica e il giudizio. Un paranoide è sospettoso e diffidente, ed è spesso aggressivo. Che senso ha occuparsi di queste manifestazioni esterne, senza indagarne le cause nella struttura profonda della psiche? Se non si rielaborano le relazioni disturbate con i propri genitori, se non si risolve un attaccamento ansioso o evitante, in che modo potrà mai cambiare il carattere della persona? Come potrà acquisire sicurezza e fiducia in se stessa e abbandonare le sue misure difensive?
Ma forse c’è una ragione ancora più generale per il disinteresse della psicologia occidentale per questo tema.
“Quale?”
Se guardiamo in profondità, ci accorgiamo che il nostro pensiero-linguaggio, disgiuntivo, separativo, radicato in una cultura dualistica, fondata sulla netta distinzione tra soggetto e oggetto, non è adeguato a trattare le qualità dell’essere.
Appena ci proviamo, incontriamo degli ostacoli e facilmente generiamo dei fraintendimenti. Da duemila anni si parla di amore, e non si è fatto un passo avanti nella sua pratica. Quante volte abbiamo sentito una persona dire che ne ama un’altra, mentre in realtà ne dipende? Come fa l’amore a conciliarsi con la mancanza di libertà? E può esistere una libertà che prescinda dalla giustizia? E una giustizia che prescinda dalla libertà e dall’amore? Ci può essere una forza che prescinda dalla gentilezza senza trasformarsi in violenza?
“Ma sono comunque cose diverse!”
Distinguere è conoscere. Senza distinzione non c’è conoscenza, ma solo confusione. Noi, però, non ci limitiamo a distinguere le qualità tra loro: la forza dalla gentilezza, l’humor e l’umiltà dall’integrità. Per nostra abitudine mentale, tendiamo a isolare e a separare gli oggetti che ritagliamo dallo sfondo. Comprese le qualità.
In tal modo, in nome della verità e dell’amore per Dio, si è giunti a torturare o a bruciare vive non poche persone. Così, in certi paesi, per perseguire la giustizia sociale, si è uccisa la libertà. In altri paesi, si è garantita la libertà, ma a scapito della giustizia.
Più in generale, siamo propensi a separare i mezzi dai fini. Per limitare la violenza, siamo inclini ad utilizzare mezzi violenti. La pratica gandhiana della non-violenza non fa parte del nostro DNA culturale. Ci sembra ragionevole cercare la pace, continuando a produrre armi sempre più sofisticate.
E nelle nostre agenzie formative, continua a sembrarci normale far proliferare formalità e burocrazia, aspettandoci come risultato lo sviluppo del pensiero critico e produttivo degli allievi. Per tacere del pensiero economico da noi elaborato, secondo il quale il benessere dell’umanità viene perseguito con l’aumento indiscriminato dei consumi e della distruzione spesso irreversibile dell’ambiente.
Il comandamento più importante, ama il prossimo tuo come te stesso, è impossibile da adempiere finché si percepisce il prossimo come un oggetto separato. Gli oggetti siamo abituati a possederli, sfruttarli o trattarli con indifferenza. Raramente li amiamo. Ed è sempre un amore che può trasformarsi in violenza.
Ma che cosa significa violenza? Se guardiamo in profondità, violenza viene da violazione. Violazione di che cosa? Della verità, della verità fondamentale: che siamo tutti interconnessi ed uniti, come le cellule di un organismo. E una cellula non può far del male ad un'altra senza danneggiare se stessa e l’organismo che la ospita.
Amare, essere empatici, grati, generosi, compassionevoli, diventa un fatto naturale e spontaneo se accediamo ad una visione non separativa, non duale, non egoica. Come è naturale non tagliarsi un braccio o darsi una martellata su un ginocchio.
L’Ego, da cui originano tutti gli inquinanti della mente, è frutto di una visione separativa che, a livello inconscio, crea una barriera tra sé e l’altro. L’altro, per l’Ego, diventa oggetto, strumento, merce per soddisfare i suoi desideri.
Per accedere alle qualità dell’essere, che sono qualità dell’amore, per loro essenza interconnesse e reciprocamente implicate, occorre liberarsi dalla tirannia dell’Ego. Ovvero trasformare il proprio carattere.
Negli ultimi cinque anni, qualità e inquinanti sono diventati un tema centrale nella ricerca Aleph. La sua fonte principale di ispirazione, oltre alla psicosintesi di Roberto Assagioli, è stata la psicologia asiatica, in particolare la psicologia buddista e la psicologia dello yoga.
“Molti autori, specie americani, si stanno occupando di questo tema!”
Sì, perché si sta diffondendo un interesse crescente per il buddismo e per le pratiche di meditazione. Questo ci porta ad interrogarci su livelli ulteriori a quello di personalità, alla quale è ancorata la nostra visione comune, condivisa da quasi tutta la psicologia occidentale.
“Che cosa significa personalità?”
Persona in greco significa maschera, la maschera che gli attori mettevano in scena per dar voce ai personaggi. Come gli attori, anche noi interpretiamo dei ruoli nella vita, ma a differenza degli attori, assai spesso dimentichiamo di toglierci la maschera e tornare noi stessi. Spesso non facciamo che passare da una maschera all’altra, da un ruolo all’altro. Ora siamo insegnanti, ora genitori, ora pazienti in uno studio medico. In ognuno di questi casi, il ruolo che assumiamo limita le nostre possibilità di pensare ed agire, inquadrandole dentro determinati schemi, prevedibili, socialmente condivisi.
“Ma i ruoli sono naturali e necessari in una convivenza civile. Non possiamo ogni volta inventarci tutto da zero!”
Certo, non sarebbe di alcuna utilità. Il problema non sono i ruoli. Il problema è l’identificazione. Un conto è pensare: io in questo momento sono nella parte di genitore, di professore o di medico. Un conto è credere: io “sono” un medico; io “sono” un papà; io “sono” un cattolico o un buddista. Nel momento che utilizziamo il verbo “essere”, sia pure per abitudine ampiamente condivisa, che tipo di operazione stiamo compiendo?
“Stiamo parlando di essenze!”
Esattamente. Stiamo cioè definendo noi stessi in termini di permanenza, stabilità, continuità. E’ un’abitudine così radicata che non ci accorgiamo di esserne dominati, perdendo in tal modo molti gradi di libertà.
Vittorio, mio carissimo amico e compagno di studi dalla prima media all’università, da sempre dotato di una forte carica ideale e anticonformista, è professore di procedura penale. Il preside di facoltà, uomo arrogante e presuntuoso, lo convocò per proporgli un progetto, che il mio amico avrebbe dovuto realizzare all’estero, in base ad una convenzione da definire nei dettagli. Vittorio iniziò ad occuparsene seriamente per alcuni mesi.
Un giorno incontrò per strada il preside e gli chiese a che punto era la convenzione di cui egli aveva parlato. Il preside, senza minimamente scusarsi, in piena identificazione con il suo status baronale, disse sgarbatamente che era andato tutto a monte da molto tempo. In un attimo Vittorio realizzò di aver sprecato molta energia inutilmente. Nonostante la presenza di alcuni studenti, non ebbe alcuna difficoltà ad uscire dal ruolo di professore, rivolgendo al preside una frase ben scandita con tranquillità, che la Corte di Cassazione, in una famosa sentenza, ha definito “consiglio poco amichevole” (vaffan…).
Il preside ammutolì e rimase fermo come una statua. Vittorio andandosene, lo salutò cordialmente. Nessun rancore, tutto finito lì. Da quel giorno il preside ha imparato a rispettare il mio amico, e forse al suo interno sono avvenuti dei cambiamenti. Perché? Perché Vittorio ha avuto la lucidità e la forza d’animo di uscire dal ruolo, dalla maschera prevedibile nei suoi movimenti, che lo avrebbe portato a sopportare l’ingiustizia o a lamentarsi in posizione di debolezza.
Il concetto di “persona” include l’immagine che abbiamo di noi stessi, della nostra identità, dello status sociale. Tutto questo ha un’enorme influenza nel nostro rapporto con gli altri.
“Stai dicendo che i ruoli ci rendono prevedibili e limitati. Ma come possiamo liberarci da questi condizionamenti?”
Comprendendone la natura illusoria. Noi non siamo i nostri ruoli, nello stesso modo in cui gli attori non sono i personaggi che interpretano. Ogni ruolo comporta delle regole a cui attenersi, delle abitudini, dei doveri. Noi crediamo di essere condizionati dall’esterno, e di fatto, una volta scelto e accettato un ruolo, per certi aspetti lo siamo. Se ci facciamo assumere come impiegati, da noi ci si aspetta che si vada in ufficio e si svolgano le mansioni assegnate; se siamo professori, dobbiamo tenere lezioni agli studenti, fare gli esami e le riunioni. Questo è del tutto ovvio.
Meno ovvio è il fatto che molti ruoli non sono mai pienamente definiti, e lasciano sempre un margine non piccolo d’interpretazione personale. Ad esempio il ruolo di genitore. Mamme e papà differenti si comportano con i figli in modi parecchio diversi tra loro.
Ci sono poi ruoli molto generali, che attraversano tutta la nostra esistenza e la condizionano in modo molto potente. Così, se scegliamo il ruolo di cittadino onesto, non potremo violare le norme giuridiche e morali e sentirci bene lo stesso. Se entriamo nel ruolo del mafioso, o semplicemente dell’affarista, le norme per noi acquistano un valore completamente diverso.
Inoltre, e qui la cosa si fa più interessante, alcuni ruoli siamo noi stessi a definirli e ad assumerli sin dall’infanzia.
“In che modo?”
Attraverso l’identificazione o il modellamento di alcuni aspetti dei nostri genitori o di altre figure importanti. Oppure attraverso decisioni, spesso inconsce, che prendiamo da bambini.
Ad esempio, la decisione di non fidarsi di nessuno, o la decisione di far tutto da soli. Oppure la decisione di essere forti, ammirati e rispettati. Con queste decisioni, senza rendercene conto, abbiamo creato un personaggio con cui ci identifichiamo. E questa identificazione limita moltissimo l’esplorazione di altre possibilità. Alla fine ci ritroviamo in una sorta di gabbia, sempre più stretta, che ci impedisce di muoverci liberamente e sviluppare le nostre risorse.
“Puoi farmi un esempio concreto?”
Se da piccolo ho deciso di attirare l’attenzione ed essere ammirato per la mia intelligenza, dedicherò gran parte delle mie energie a sviluppare questo aspetto della mia personalità, a scapito di altri aspetti, come l’esuberanza fisica, la giocosità, l’umorismo. Diventerò un bravo bambino diligente, un primo della classe. E le persone intorno cominceranno ad avere determinate aspettative nei miei confronti, che io non vorrò deludere, perché desidero mantenere la mia immagine.
“Che cosa significa immagine, specificamente?”
Immagine, in parole semplici, significa ciò che io voglio apparire all’esterno.
“Ma tutti in qualche modo desideriamo metterci in buona luce, essere accettati, riconosciuti!”
E’ vero, sia pure in misura diversa e per differenti aspetti: qualcuno vuole essere riconosciuto per le sue doti atletiche, qualcun altro per la sua affidabilità e serietà o per la sua autonomia e indipendenza. Ma il fatto che questa modalità ci coinvolga tutti, significa solo che è culturalmente diffusa. Non che è necessaria e naturale o che non produca sofferenza.
“Che tipo di sofferenza?”
La sofferenza, spesso solo strisciante, ma talvolta anche intensa ed esplosiva, di non essere se stessi. Di doversi controllare, inibire, irreggimentare, perdendo freschezza e spontaneità. In una parola, perdendo la gioia di vivere, che è gioia connaturata all’essere, non al fare o all’apparire. Nessuna performance, nessun successo, nessun riconoscimento, potrà mai compensare questa perdita, che è una vera e propria mutilazione.
Genitori psichicamente mutilati, non sono in grado di dare ai figli il permesso di essere davvero se stessi. In tal modo, il contagio si diffonde di generazione in generazione.
“Ma molti figli si ribellano, non seguono le regole, non adempiono affatto alle aspettative dei genitori!”
La ribellione non è liberazione dal ruolo. E’ solo la scelta di un altro ruolo, quello del ribelle, dell’anti-conformista. Ogni ruolo comporta l’assunzione di una serie di norme, di solito implicite, e quindi di doveri cui attenersi. Conformista e anticonformista praticano lo stesso tipo di danza, una danza oppressiva, con ruoli complementari. E la persona che assume apertamente uno dei due ruoli, non si libera affatto dall’altro, ma finisce per relegarlo nell’ombra.
Inconsciamente, il conformista vorrebbe potersi ribellare e mandare tutti a quel paese. Per evitare questo, diventa sempre più oppressivo con se stesso, e naturalmente anche con gli altri. Lo stesso avviene nel ribelle. Identificandosi con la ribellione, finisce con il diventarne schiavo.
“In sostanza, stai dicendo che i ruoli in cui ci identifichiamo determinano il nostro copione di vita. Ovvero il tipo di rappresentazione a cui partecipiamo e costruiamo insieme ad altri attori, che interpretano i personaggi complementari?”
Non viviamo come monadi isolate, ma siamo parte di sistemi via via più ampli ed inclusivi. Siamo membri della nostra famiglia, e ne siamo profondamente imprintati e influenzati. Ma siamo parte anche di altri gruppi, organizzazioni, collettività, culture. E siamo parte dell’ambiente in cui viviamo, non solo di quello artificiale, ma anche e soprattutto di quello naturale: l’aria che respiriamo, l’acqua che beviamo, i cibi di cui ci nutriamo, gli alberi, i fiumi, le montagne.
La fisica quantistica ci ha rivelato che non siamo oggetti, dotati di sostanza, materia, permanenza, tra di essi separati, con in mezzo il vuoto, ma onde di energia che interferiscono tra loro. Gli stessi atomi, formati di particelle infinitesimali, sono onde di energia che hanno preso una determinata forma.
Oggi sappiamo che Cartesio aveva sbagliato: non si può separare l’osservatore dall’oggetto osservato, perché appartengono allo stesso campo di energia e si influenzano reciprocamente. Le intuizioni delle antiche tradizioni sapienziali, di un unico campo di energia ed intelligenza, definito con differenti nomi, come ubuntu, grande spirito, Pachamama, Brahma, adwaita, coscienza cristica, vengono confermate dalla fisica contemporanea, ove si parla di field (campo), quantum field (campo quantistico) oppure di ologramma, livello implicito ecc. Il nostro immaginario comune, basato sulla fisica newtoniana dei corpi, nella quale siamo stati educati, e che ancora oggi influenza molte discipline, come la medicina, è smentito alla radice dalle scoperte della fisica contemporanea.
“Ma la materia solida esiste, ne facciamo esperienza tutti i giorni!”
Certo, ma l’idea che ne abbiamo è completamente sbagliata. La materia non è piena. E’ fatta di vuoto dove si condensano onde in forma di particelle, atomi, molecole. La materia, quella che conosciamo noi, un pezzo di ferro, una pietra, non assomiglia affatto a qualcosa di pieno e denso, ma ad una miriade di vortici di energia, come microscopici e velocissimi tornadi, entro i quali certamente non si può penetrare. Ma la cui influenza, nel campo energetico, non termina certo a livello della superficie. Così si spiega l’impatto che una determinata sostanza, a livello sottile, può esercitare sul nostro corpo, anche se non entra in contatto diretto.
A maggior ragione, siamo influenzati dalle persone intorno a noi, dalle loro emozioni, dal loro umore, non solo dalle loro parole e comportamenti non verbali.
Oggi sappiamo che le differenti emozioni generano, e a loro volta sono generate, da cambiamenti nella biochimica del corpo, nelle aree di attivazione del cervello, nelle onde elettromagnetiche che irradiano dal nostro cuore, per fare solo alcuni esempi.
In termini più semplici, ogni emozione si accompagna ad una modifica nel campo di energia intorno al corpo, che si irradia tutto intorno ed interferisce con i campi energetici di altre persone, animali e addirittura piante. Persino l’acqua, elemento in cui si è originata la vita, sembra influenzabile da questa forma di radiazioni.
Un altro modo di esprimere lo stesso concetto, è affermare, come fanno alcuni, che il nostro sistema limbico, sede principale delle emozioni, è un sistema aperto, ovvero è come una radio ricevente e trasmittente, pronta ad attivarsi e a sintonizzarsi sui messaggi provenienti da altri sistemi limbici nelle vicinanze.
“… e tornando ai ruoli?”
Ogni ruolo, ogni personaggio in cui entriamo, modifica il nostro corpo, la nostra fisiologia, il nostro modo di percepire, sentire, pensare. Comporta quindi una riorganizzazione del nostro porci in relazione con gli altri, a cui gli altri reagiscono quasi sempre entrando a loro volta in un determinato ruolo, simmetrico o complementare.
Ad esempio, se io divento aggressivo con te, tu puoi rispondermi per le rime, oppure subire la mia prepotenza. Se questo tipo di azione e reazione si ripete più volte, con il tempo si stabilizza e diventa uno schema di interazione. E’ sufficiente che una delle due persone entri nella parte che gioca nello schema, per attirare l’altra nello stesso tipo di danza. Si crea, cioè, un condizionamento reciproco. Basta un nonnulla per riattivare lo schema.
“Che cosa significa questo?”
Significa che, nelle relazioni quotidiane, con le persone con cui viviamo, lavoriamo o frequentiamo più spesso, si creano dei sistemi di ruoli reciprocamente implicati, che si mantengono nel tempo, e rendono prevedibili le mosse degli attori all’interno del sistema stesso. In altri termini, si crea un copione condiviso, a cui tutti noi partecipiamo per la nostra parte. Copioni di coppia, di famiglia, di gruppi di amici o colleghi.
“Questo fornisce un senso di sicurezza. Ci risparmia il rischio di mosse imprevedibili e destabilizzanti!”
Sì, però tutto questo è a scapito della freschezza e della spontaneità, cioè della capacità di reagire al momento presente, anziché essere guidati dai condizionamenti del passato. Viene meno la capacità di rinnovarsi e ricrearsi ad ogni circostanza, che è l’essenza della vitalità.
“Quindi, se ho capito bene, questo tipo di sicurezza non è una qualità dell’essere!”
Esattamente. Ogni ruolo in cui c’identifichiamo, diventa una forma di ingessatura, che limita i nostri movimenti e quelli degli altri intorno a noi. La sicurezza che ne ricaviamo è parziale, contingente ed illusoria, basata sulla paura di ciò che è nuovo e imprevedibile.
Essa non ha nulla a che fare con il senso di pace, serenità e fiducia di fondo, che sperimentiamo quando, abbandonando l’attaccamento a immagini e ruoli, dimoriamo nell’essere e viviamo in presenza mentale, in contatto con le sensazioni del corpo, in armonia con esse. Aggrappandoci a degli schemi, senza rendercene conto, lentamente usciamo dal fiume della vita, che è in primo luogo legata al corpo fisico, al senso di interezza neurovegetativo, e lentamente ci ritroviamo immersi nella pozza della nevrosi e della sofferenza.
“Perché nevrosi?”
In senso ampio, nevrosi significa conflitto non episodico, ma ripetuto, permanente o pervasivo. In questo caso, conflitto tra la parte di noi che vuole mantenere l’abitudine a ripetere gli stessi schemi (cervello rettiliano), per sentirsi al sicuro, per timore del rifiuto, e gli impulsi che premono in direzione opposta, per dar voce alla totalità della nostra psiche, ove risiede l’aspira-zione alla libertà, all’esplorazione, alla curiosità.
Ogni conflitto, per sua natura, porta una quota di sofferenza, tanto più intensa quanto più forti sono le parti che confliggono e quanto minore è la consapevolezza della sua esistenza.
“L’identificazione nel ruolo riduce la consapevolezza?”
Proprio così. Questa è la chiave di volta. Se, come attore, inizio a confondere il personaggio che interpreto sulla scena con la realtà di chi io “sono”, comincio ad avere seri problemi fuori dal palcoscenico. Solo mantenendo la consapevolezza del personaggio, io rimango libero di lasciarlo andare, o di riprenderlo, a seconda delle circostanze, senza esserne condizionato.
Tanti anni fa incontrai una madre, separata dal marito, e disperata per i comportamenti del suo bambino: pigro, disordinato, perennemente in ritardo al momento di andare a scuola. Chiesi alla donna quali soluzioni avesse tentato fino ad allora per risolvere il problema. Mi disse che, nell’ultimo anno, tutta la sua attenzione era focalizzata sul figlio, per educarlo e richiamarlo ai suoi doveri. Le aveva tentate tutte, con le buone e le cattive.
Le chiesi se era pronta a fare qualcosa di completamente nuovo. Mi rispose di sì. Le spiegai che, sino al nostro prossimo incontro, avrebbe dovuto tenere un atteggiamento totalmente diverso. Non più da madre attiva, sollecita, preoccupata, ma da persona distratta, pigra, smemorata. Le prescrissi anche alcuni comportamenti specifici: non mettere in ordine nella camera del bambino; mangiare biscotti mentre gli rifaceva il letto, lasciando cadere molte briciole dentro le lenzuola; dimenticare di preparare la colazione; dimenticare la chiave dell’auto quando si trattava di accompagnare il bambino a scuola.
La settimana successiva, la donna mi raccontò sorridendo come erano andate le cose. In primo luogo aveva smesso di essere continuamente in ansia, e aveva cominciato a divertirsi nell’esplorare il nuovo atteggiamento che le avevo suggerito. Si era particolarmente divertita ad osservare le reazioni del figlio. Del tutto spiazzato, aveva cominciato a preoccuparsi lui di arrivare a scuola per tempo, richiamando la madre ogni volta che la vedeva assente o distratta.
“Le parti si erano rovesciate!”
Sì, durante la fase critica, fase che consentì loro di esplorare nuove possibilità e di uscire dallo schema in cui erano rimasti intrappolati.
“Hai aiutato la madre ad abbandonare il suo rigido ruolo. E questo ha prodotto un cambiamento anche nel figlio!”
Certo, perché quello del figlio era parte di uno schema più ampio, di una danza condivisa, cui entrambi collaboravano inconsciamente.
“La madre aveva smesso di essere ansiosa!”
Sì, questo è molto importante. Una madre ansiosa, pressante, che ripete sempre le stesse cose, diventa davvero insopportabile per un bambino. Il quale si difende ritirandosi il più possibile dalla relazione, non ascoltando più e facendo gli affari suoi. I bambini, ancora più degli adulti, reagiscono soprattutto alla qualità dell’energia che emana da una persona. Non sono tanto le parole o i singoli comportamenti, ma gli atteggiamenti di fondo che influiscono sulla relazione.
La madre soffriva di ansia da impotenza: qualunque cosa facesse, non funzionava. Viveva in stato permanente di stress. La biochimica del suo corpo, la qualità dei suoi gesti, il tono della sua voce, le onde elettromagnetiche del suo cuore, influivano sulla fisiologia e sulla biochimica del figlio, che cercava di difendersi come poteva, attraverso la chiusura e la passività. In tale situazione, le parole e i richiami della madre avevano ben scarso potere.
Quando si vive vicini, la fisiologia dell’uno si adatta in risposta a quella dell’altro. Ricordiamo: non siamo oggetti meccanici, newtoniani, separati dal vuoto, ma siamo campi di energia quantistica, che interferiscono continuamente.
Di fronte ad una difficoltà, attiviamo naturalmente le nostre strategie di difesa e soluzione. Il nostro organismo è equipaggiato molto bene per sopportare situazioni di minaccia fisica, reagendo innanzitutto a livello biochimico e predisponendoci all’attacco o alla fuga. Questo meccanismo è adatto ad affrontare situazioni semplici, a cui è possibile rispondere in modo automatico. Nella complessità della vita relazionale, il meccanismo rischia di incepparsi nella reazione di stress, sottraendoci lucidità e creatività nella risposta.
Parliamo a questo proposito di sequestro emozionale. Se il sequestro emozionale dura a lungo e si cronicizza, la persona sperimenta senso di impotenza e disperazione. Vista da fuori, essa ripete sempre le stesse mosse, come una mosca che cerca di attraversare il vetro di una finestra. Rinchiusa nello schema ripetitivo, perde contatto con l’ambiente, con la freschezza delle sensazioni del qui ed ora, e sua intelligenza si riduce ad un barlume. Il suo cuore si chiude, perde la capacità di amare e di affidarsi ad un’intelligenza più grande.
“Hai parlato di campo elettromagnetico del cuore. Puoi dirci qualcosa in più?”
Recentemente si è scoperto che non è il cervello, ma il cuore, dotato anch’esso di un suo sistema nervoso, ad avere il campo bioelettrico misurabile più ampio. All’incirca due metri intorno alla persona, in base alle apparecchiature oggi a disposizione.
Vi propongo un esperimento. Chiudete gli occhi e immaginate di avere davanti a voi una persona speciale, per la quale provate grande amore e riconoscenza, fino a percepire nel vostro corpo questi sentimenti a livello più intenso possibile. Cambiate le sottomodalità dell’immagine, fate gli aggiustamenti necessari.
Bene, ora diventate consapevoli della qualità dell’energia che circola nel vostro corpo, e visualizzate delle onde di energia che si irradiano dal vostro cuore in modo concentrico, intorno a voi, fino a raggiungere l’altra persona.
Immaginate ora di disegnarle su un grande foglio di carta, o di filmarle e proiettarle su uno schermo. Che forma hanno queste onde? Che
Come esseri umani, abbiamo il potere di immaginare e creare la realtà del mondo in cui viviamo. In ogni momento, in ogni circostanza, attraverso i nostri pensieri, emozioni, parole ed azioni, possiamo decidere di promuovere distruzione e infelicità o armonia e benessere.
Ma da dove origina questo potere? Dalla capacità di distinguere con chiarezza tra inquinanti della mente – orgoglio, fede negativa, giudizio, disprezzo ecc. – e qualità dell’essere – umiltà, amore, gratitudine, coraggio, generosità ecc. –. E nella scelta di praticare queste ultime, rinunciando agli inquinanti, radicati nella nostra immagine narcisistica ed egoica.
Non ci sono commenti presenti.