Non basta tracimare
di parole da scrivere
e benedire il candore
d’un foglio o di word
in attesa dei segni
[gli stessi, mai uguali]
vergati con dita di luna
intrisi di gocce di perla
scaldati d’arancio tramonto
per sentirsi poeta.
Né vale stupirsi
della filigrana paziente
delle ore del giorno
[trappola tesa
alla resa notturna]
e dei colori dell’anima
e del cielo dicembrini
quando si schiude l’attesa
d’un soffio d’infinito
che non sappiamo
che non ammettiamo
ma che ci fa bambini
vecchi e testardi di speranza.
Chissà, forse ci vuole
d’aver vissuto non tanto
ma tanto intensamente:
d’essersi innamorati
almeno cento volte
d’aver asciugato
almeno mille pianti
d’aver visto nascere e morire
non solo fiori
passeri o farfalle
d’accettare davvero
fino in fondo
la comparsa precaria
e la chiusa del sipario sulla scena.