Titolo | Cristina (XIV.Parigi, Parigi!) | ||
Autore | M. Gisella Catuogno | ||
Genere | Narrativa | ||
Pubblicata il | 23/04/2012 | ||
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Francia, 1831
“Vado in Svizzera, non ne posso più della Francia, delle sue lusinghe e dei suoi voltafaccia. Sono stanca e preoccupata. Augustin, perché deve essere tutto così difficile?”
Il giovane lasciava che Cristina sfogasse contro la sua spalla tutta la sua disperazione. Avrebbe voluto stringerla a sé, sentire il contorno del suo giovane e fragile corpo, riempirla di baci e di carezze. Ma non poteva, non osava, aveva paura di incrinare la splendida amicizia che c’era tra loro.
“Augustin” gli aveva detto quando si era dichiarato qualche tempo prima “ io sono ta soeur, tu sei mon frère, non sciupare quest’incanto, non posso darti nulla di quel che desideri. Sono segnata, segnata per sempre nel corpo e segnerei anche te, lo capisci?” e nel sussurrare le ultime parole, era scoppiata in un pianto così accorato, che il giovane aveva compreso in un attimo tutte le sfumature del suo dramma e aveva giurato a se stesso di non tornare più sull’argomento.
Adesso, si accontentava di immaginarne la grazia, di aspirare a occhi chiusi il profumo dei suoi capelli, di averla vicina, di poterle parlare e di essere per lei più d’un amico e meno di un amante.
“Che ne dici se vado a Lugano? Ho la cittadinanza là, sarebbe quasi un ritorno a casa, ho conoscenze, anche nel governo…posso, anche da lassù, lavorare per la causa…”
“Ma chi te lo fa fare di seppellirti tra i monti? Le montagne sono bellissime: io le adoro all’alba, quando il sole nascente scalda i loro fianchi di luce; le adoro al tramonto, quando sento il sole languente e mi rammento dell’oro e dell’arancio di cui sono soffuse. Ma, dopo un po’, pesano come piombo! Non l’avverti anche tu il loro peso sul cuore? Non hai desiderio di orizzonti sconfinati, della vivacità culturale di una città vera, di rapporti interpersonali ricchi e costruttivi? Vai a Parigi, Cristina, e vivi come meriti!”
“Non conosco nessuno a Parigi! E poi sono profondamente delusa dalla Francia che ci ha aiutato soltanto quando la nostra rovina minacciava la sua e poi ci ha miseramente abbandonati al nostro destino…”
“Cristina, a Parigi starai bene! Con la tua cultura, con la tua esuberanza diventerai la regina dei salotti. Ho tanti amici influenti, riuscirai a risolvere i tuoi problemi personali, potrai assistere i tuoi compagni patrioti sfortunati…da là sarà più semplice far recapitare loro quello di cui hanno bisogno. E poi, ma soeur conosco una persona che ti adorerà, ne sono certo, anzi…ne sono già un po’ geloso…” e sorrise, tra divertito e malinconico, a queste parole “si chiama François Mignet ed è direttore degli archivi del Ministero degli Esteri. Gli farò scrivere stasera stessa una lettera di raccomandazione per te, se mi dai retta!”
Quando la carrozza si fermò davanti all’abitazione di Mignet e lei ne scese, il primo profumo di Parigi che le invase le narici fu quello di tigli in fiore. Era maggio e la città pareva in festa: per le vie, nelle piazze e nei giardini, tanta gente si godeva l’aria aperta e l’incanto della primavera al suo culmine, quando sembra davvero che la protezione di un cielo azzurro e cristallino, le voci gioiose dei bambini in gioco, la luce che asciuga l’umidità dell’inverno e dell’anima siano la solenne promessa d’una felicità duratura.
L’incontro con l’amico di Augustin fu subito cordiale e reciproca la sorpresa d’intuire già da allora un futuro d’intesa, d’affetto, forse d’amore.
Quando i loro sguardi si incontrarono, ciascuno si meravigliò del fascino dell’altro; François aveva allora trentacinque anni, come Augustin, e un viso che non si dimentica: lineamenti regolari, capelli biondi e occhi di un blu intenso. Cristina già sapeva che era stato un enfant prodige, che aveva studiato ad Avignone e si era laureato a soli diciannove anni, che era nativo di Aix en Provence e aveva la passione della storia. Conosceva anche la sua amicizia con Adolphe Thiers, col quale si era trasferito nella capitale; ma qui, abbastanza presto, i loro destini si erano allontanati, perché, mentre Adolphe aveva rinnegato gli studi storici per la politica, François aveva preferito un oscuro, sebbene lucroso, impiego come direttore d’archivio. Questa scelta, le aveva confessato Augustin, aveva deluso molti suoi ammiratori perché la consideravano un’espressione di egoismo, in quanto, con le sue doti intellettuali e morali, avrebbe potuto mettersi più direttamente al servizio della comunità. Ma Mignet non era di questo parere: in fondo, con Guizot e lui stesso, non aveva forse fondato una nuova scuola e contribuito a diffondere nuove teorie sul ruolo dei popoli nel processo storico? E non erano stati proprio loro a ispirare le trois glorieuses?
Cristina ebbe la sensazione di penetrare l’animo di François già al primo sguardo: vi lesse serietà, ascetismo e propensione all’amore; ne conosceva già quello, immenso, per la madre, che gli aveva impedito finora di sposarsi.
Mignet, da parte sua, rimase folgorato da quella bellezza languida, estenuata, pallida, che sembrava appartenere ad un’eroina di Stendhal, e da quegli occhi grandi e profondi che gli apparvero due pozze d’acqua inquieta.
Una settimana dopo, così Cristina scriveva ad Augustin:
Mon frère,
avevi ragione a spingermi a Parigi! Sono qui da pochi giorni e mi sento già a casa. François è un tesoro: non solo mi ha accolto a braccia aperte, ma mi ha anche ospitato e aiutato ad affittare un appartamentino. Nulla di speciale, amico mio, un mezzanino di periferia in rue Vignon, ma ora sono povera, lo sai, e non posso permettermi di più. Con il mio estro lo farò diventare speciale!
E poi, indovina chi mi ha presentato? Il mitico
Qui c’è pieno di italiani. Silvio Pellico, Federico Confalonieri e Pietro Maroncelli, usciti dall’inferno dello Spielberg, sono venuti a rifarsi gli occhi a Parigi!
E poi François mi ha parlato di sé, dei suoi lavori, della passione per la storia che condividete, delle nuove idee che circolano in questa capitale che è una fucina di progetti, di discussioni, di novità; ho saputo ad esempio dei sansimoniani, che auspicano una società basata su principi evangelici, guidata dal meglio che la borghesia colta e laboriosa può esprimere, produttori e industriali a cui spetta il compito economico e morale di far uscire gli operai dalla loro condizione di degrado materiale e morale. Che fervore, Augustin, sono entusiasta! Spero di conoscerli presto e di poter partecipare ai loro incontri.
Tra l’altro, sembra che abbiano delle posizioni molto avanzate sull’emancipazione femminile, che è un tema, come sai, che mi sta molto a cuore e che è invece evitato o deriso, con mia grande rabbia, dai patrioti nostrani, mazziniani compresi!
Adesso però urge che mi sistemi nella mia minuscola reggia. Appena ho un briciolo di tempo, ti scrivo. Mi manchi da morire, ti abbraccio.
Ta soeur Cristine
Il mezzanino di rue Vignon, nel quartiere della Madeleine, non aveva mai conosciuto tanta vita e tanta alacrità al suo interno. Cristina intendeva trasformarlo, pur nella sua modestia, in qualcosa di speciale. L’inedito stato di princesse malheureuse, che aveva affisso anche sulla targhetta della porta d’ingresso, invece di deprimerla, la stimolava alla creazione di idee originali, di progetti inediti e a volte strampalati.
Abbelliva quelle spoglie pareti, lei che era abituata ai quadri d’autore, agli arazzi, agli affreschi, con disegni e ventagli pieni di colore, come le aveva insegnato da bambina la sua cara Ernesta; sopperiva alla mancanza di cortine di seta e di velluto con tendine a buon mercato comprate al mercato sotto casa ma valorizzate dal suo estro con fogge bizzarre e fiocchi vistosi.
Era sola, senza servitù, con pochi soldi, ma doveva farcela.
Non mi arrenderò mai ripeteva a se stessa, a voce alta, per rafforzare determinazione e coraggio.
“Non ho mai cotto un uovo!” confessava lei
“Ma chérie, non ti preoccupare, lo mangeremo crudo!” e ridevano insieme fino alle lacrime come due ragazzi
“Gilbert, sai, in questi giorni mi è venuta in mente, con emozione, una fiaba letta nella mia infanzia, che mi era piaciuta tanto. Raccontava della principessa di un meraviglioso castello che, per un malvagio incantesimo di una fata senza cuore era stata trasformata in una contadina. Nel suo nuovo stato, la poveretta, abituata a comode scarpine, piangeva tutte le sue lacrime a camminare con gli zoccoli che le rovinavano la pelle delicata e la facevano traballare; non era capace di impastare una focaccia con acqua e farina che si rifiutavano di unirsi; provava ribrezzo a mangiare in una pentola di stagno o a bere in recipienti di metallo, lei che aveva sempre usato piatti di finissima porcellana e bicchieri di cristallo purissimo; era paralizzata dallo sgomento davanti alle mammelle delle vacche, gonfie di latte da mungere; non aveva idea di come si tenessero in mano conocchia e fuso e il filo le andava da tutte le parti…Ecco, quella contadina sono io, mon bien-aimé…”
“Tu es inique, ma princesse italienne!” sussurrava il marchese commosso, prendendole la mano e sfiorandola con le labbra “tu es une princesse toujours; les travaux domestiques je veux les faire seulement moi-meme!”
“ Ma come faccio ad avere per sguattero l’Eroe dei due mondi?” protestava ridendo lei.
Il giorno che riuscirono a fare una frittata come si deve, morbida, saporita e salata al punto giusto, la festeggiarono accompagnandola con dell’ottimo champagne portato in omaggio dal gentiluomo nella sua incursione giornaliera in rue Vignon, all’uscita dalla Camera dei Deputati.
Per Cristina il cibo era sempre stato secondario: il suo organismo ne richiedeva poco e semplice; per questo quell’omelette confezionata personalmente, riuscita bene e divisa con un vero amico, l’apprezzò più di un pranzo raffinato.
Non le mancavano gli inviti e le frequentazioni illustri: la compagnia di Mignet era assidua e gratificante e la inseriva gradualmente nel bel mondo; poi c’erano i patrioti italiani e i sansimoniani a riempirle le giornate e la mente di nuovi pensieri.
Quando rientrava nelle sue stanze, sfinita dalla mondanità e dai cinque piani appena fatti, non si lasciava mordere dalla solitudine: ultimava qualche schizzo, si immergeva nelle letture o nello studio, scriveva lettere o spalancava la finestra che affacciava su Place Madeleine. Guardava le carrozze in movimento o in sosta, i lampioni a gas che ad uno ad uno venivano accesi dal lampionaio all’imbrunire, respirava il tepore di maggio che saliva fino a lei come un balsamo. Parigi le piaceva sempre di più.
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