Era l’agosto del 1978. Da un mese circa ero entrato come critico musicale al “Corriere Mercantile” di Genova. Anni giornalisticamente felici, quelli. Sulle pagine spettacoli c’era spazio a volontà per le recensioni musicali, non come accade oggi quando pubblicare quindici righe su un evento è impresa quasi titanica.
Fra i primi concerti che mi capitò di recensire c’era uno “Stabat Mater” organizzato a Savignone.
Non ricordo, a distanza di quasi quarant’anni, come fu quella esecuzione. Ricordo, però, che in quell’occasione incontrai per la prima volta il tenore Ottavio Garaventa.
Lo conoscevo, naturalmente, di fama: un tenore dalla voce squillante, la tecnica solida, la presenza generosa. Un professionista serio che il teatro lo conosceva davvero.
Fu un incontro per me importante perché non apprezzai solo l’artista, ma anche l’uomo, entusiasta, generoso, cordiale, semplice.
Sui tenori si raccontano tante storie, vere o verosimili: il loro divismo, la loro mania di protagonismo che talvolta sconfina nel ridicolo o nel pittoresco. L’immagine ricorrente del tenore è quella di un artista ben piantato a gambe larghe sul palcoscenico, nell’atto di emettere un acuto tonante strappa applausi.
Garaventa gli acuti li faceva eccome, naturalmente e le gambe le teneva ben piantate.
Ma sapeva separare il mestiere dalla vita. E quando dismetteva gli abiti di Radames o di Alfredo, tornava la persona semplice e bonaria che tutti amavano.
Da allora gli incontri sono stati frequenti. Quando capitava a Genova per esibirsi in un allestimento lirico, ci si incontrava per una intervista rapida o uno scambio d’idee. Aveva sempre la battuta pronta e gli piaceva dire quel che pensava, senza nessuna diplomazia. Per questo, ci scherzava sopra, non aveva ricevuto grandi soddisfazioni dalla sua breve avventura politica, non sapeva mentire e vendere fumo.
L’ultima sua telefonata risale al gennaio prima della scomparsa. Si apprestava a festeggiare i suoi 80 anni e lamentava la scarsa attenzione dell’ambiente genovese nei suoi confronti. Per questo con l’amico Giuseppe Isoleri, presidente degli “Amici del Carlo Felice” avevamo progettato una giornata di festa in suo onore, alla quale, purtroppo, non è riuscito ad arrivare.
Raccontava con giustificato orgoglio di essere stato l’unico a vincere il Concorso Aslico come baritono e poi come tenore.
- Nel ‘63 - ha raccontato in uno dei nostri incontri - facevo un Barbiere a Milano quando improvvisamente ebbi un problema alla voce. Il grande musicologo Confalonieri, con la sua parlata lombarda, mi disse: “Non sarai minga un tenore?”. Ero un tenore e di lì a poco passai ad altri personaggi e ruoli. -
Garaventa si rimise dunque a studiare, con l’umiltà e la tenacia dell’artista serio, che ha le idee chiare sul suo futuro e sull’importanza della sua professione.
Cambio di ruoli e nuovo debutto, questa volta nei panni di Florindo nelle Maschere di Mascagni.
Al concorso di Busseto nel 1964 la vittoria su 380 concorrenti: la commissione era composta tra gli altri da Confalonieri e Gara.
Garaventa aveva, comunque, visto giusto. Come tenore, infatti, si è imposto a livello internazionale per la bellezza del timbro chiaro, ma caldo, per un fraseggio chiaro rispettoso della comprensibilità della parola (qualità questa assai rara) e per una tecnica che gli ha consentito di esibirsi nei più grandi teatri del mondo con un repertorio di oltre 113 opere.
Sua grande passione, Verdi, naturalmente, senza dimenticare Donizetti e anche qualche fortunata escursione nel verismo.
A Genova ha cantato innumerevoli volte.
Mi piace ricordarlo in versione hyppie nel Mefistofele di Boito firmato da Ken Russell al Margherita nel 1987. Uno spettacolo ormai storico nel quale il diabolico regista inventò di tutto, da Biancaneve bruciata sul rogo dai nazisti a Faust ringiovanito attraverso un intervento di chirurgia plastica. A Garaventa, Faust, appunto, piaceva mettersi in gioco anche in operazioni complesse, dalla sua aveva un assoluto rigore vocale e un totale rispetto per la partitura.
In quell’occasione, andai a trovarlo in camerino. Lo stavano truccando ed era per lo meno curioso vederlo trasformato in un giovane sessantottino ribelle. Su quel Mefistofele si stavano addensando non poche nubi, ricordo che il direttore Vladimir Delman se ne andò durante le prove non condividendo le scelte registiche e alla prima il pubblico fischiò come un ossesso con Russell seduto e divertito nella prima fila della galleria.
Ebbene trovai Garaventa divertito e allegro. Le sfide gli piacevano, ma nel rispetto della musica:
Tengo a precisare - mi disse - che io canto Boito e che ho interpretato Faust una trentina di volte. In questo caso debbo cambiare l’aspetto esteriore: sono un sessantottino vestito alla Che Guevara. Mi hanno detto che sto bene!
Uomo sanguigno, vigoroso e sincero, diceva di avere tre amori: la musica, la famiglia e la pittura.
Io - raccontava allo scrivente qualche tempo fa mostrando i suoi quadri a cui era tornato con rinnovata passione - ho sempre amato il mio lavoro: c’è chi prende la droga, chi si dà all’alcol. Io, dico la verità, mi sono ubriacato tutta la vita cantando. Ma non è una questione di narcisismo, non mi innamoro della mia voce, ma della musica.
Ho citato la pittura. La ricordo. Era l’estate del 2010 e Garaventa mi telefonò per segnalarmi che aveva inaugurato una mostra intitolata Il colore del melodramma, a Savignone. Decisi di andarlo a trovare. È stato l’ultimo incontro diretto, al di là delle telefonate. Era in forma, felice fra i suoi quadri, emozionato come un debuttante.
La pittura mi rilassa - mi raccontò - Ascolto Rossini, Verdi, Beethoven e disegno di getto quello che sento.
Ho iniziato a dipingere per disperazione nel 1966. Ero a Venezia a cantare nella Resurrezione di Cristo con la direzione di Gavazzeni, insieme alla Ricciarelli e alla Valentini. Poi dovevamo replicare a Macerata. Io stavo male perché mia figlia doveva sottoporsi a diversi interventi. Arrivato nelle Marche rimasi affascinato da un campo di girasoli. Non avevo mai dipinto, eppure mi venne voglia di provarci. E dopo quel primo quadro ne seguirono altri dedicati a guerrieri, con elmi, asce, schizzi di sangue. Quando tornai a Genova, parlai con un amico psicologo che analizzò i miei dipinti e mi disse che avevo bisogno di gridare, di esternare il mio dolore. Da allora periodicamente riprendo il pennello e mi lascio trascinare dall’istinto.
Ligure doc aveva trovato per sé una simpatica definizione:
Sbatti, sbatti l’olio viene sempre a galla; io sono un olio d’oliva della Liguria.
Il libro scritto dalla figlia Marina vuole essere una ricostruzione di Garaventa come artista e come uomo.
In genere è bene diffidare delle autobiografie o delle biografie scritte da parenti stretti. C’è sempre un comprensibile pudore a rileggere la realtà, addolcendola.
Marina si è posta certamente questo problema e lo ha risolto raccontando, in una sorta di romanzo godibilissimo, il padre. Un padre importante, ma pur sempre un padre, visto da una figlia che lo ha adorato tutta la vita.
E allora Marina non si nasconde, ma abbandona ogni pudore per ricordare il suo Ottavio che in parte coincide con il nostro artista, in parte ci è svelato nei suoi affetti familiari, nella sua vita quotidiana.
È, dunque, un libro d’amore. Un amore che la morte non spezza, semplicemente, come ha scritto nelle ultime, belle pagine, l’autrice, si apre a prospettive diverse, perché, dice Marina, “mio padre non ci ha lasciato, ha solo cambiato la sua essenza”.
Rosetta, 11 anni, se ne stava accanto alla stufa che, nella grande cucina, bruciava senza sosta la sua razione di legna. La ragazzina era sola e seduta accanto alla finestra guardava la neve scendere silenziosa a ricoprire i tetti delle case del quartiere popolare di Quezzi, alla periferia di Genova. La città era vicina ma lì sembrava di essere in campagna e l’insolita neve, del 26 gennaio 1934, rendeva quel giorno ancora più speciale. Certo la nevicata era un bello spettacolo, ma l’attenzione della bambina era occupata da ciò che avveniva nella stanza accanto, da dove lei, così piccola, era stata allontanata in tutta fretta poche ore prima.
Sua sorella Teresa, d’undici anni maggiore, stava per avere il suo bambino: intorno a lei, si affannavano la loro madre Cesira e la vecchia levatrice, mentre nel corridoio sostavano silenziosi suo padre Augusto e il marito di Teresa, Benedetto.
Rosetta non amava suo cognato e, benché tutti magnificassero le sue doti di fine artigiano, la sua buona posizione economica e la sua avvenenza, pur non sapendo perché non trovava nulla di bello in quel matrimonio pianificato da zie e genitori, ai quali Teresa, di carattere remissivo, si era docilmente piegata. Rosetta sospirò: certamente a lei, tutto questo non sarebbe accaduto. Lei non era come la sorella e non avrebbe mai sposato un tipo così duro e poco affettuoso come quello là. Rimuginava ancora sui torti e i difetti del cognato quando un suono nuovo la riscosse dai suoi pensieri: un bambino piangeva. Saltò dalla sedia e in un baleno fu sulla porta della camera da letto dove, col suo sorriso benevolo, l’accolse suo padre:
- Rosi, è maschio! -
In un angolo, Benedetto sbirciava dentro la stanza indeciso se entrare o meno. Rosetta ebbe l’impressione di vedere una lacrima di commozione nei suoi occhi ma, troppo eccitata per soffermarsi su quel particolare, infilò la porta della camera. Guardò per un attimo Teresa che, nonostante la fatica, sembrava tranquilla e poi rivolse le sue attenzioni a sua madre che teneva tra le braccia il bambino.
Rosso e grosso quanto bastava per dimostrare la sua mascolinità, il piccolo decise che era il caso di comunicare a tutti la sua presenza e, spalancata la boccuccia, emise un urlo che, più che un vagito, poteva definirsi un ululato.
- Lo chiameremo Ottavio, come nostro fratello. - sussurrò Teresa.
Rosetta lo guardò, e pensò che lo avrebbe chiamato “Tavin”, piccolo Ottavio.
Si chinò su di lui sottovoce, gli disse:
- Tu diventerai un grande tenore. -
Tavin fissò il cielo e aguzzò le orecchie. Come un giovane cane da caccia fiutò l’aria e, come gli accadeva ogni giorno da quando si erano rifugiati a Castellorosso, minuscola frazione di Savignone, li sentì arrivare prima di tutti gli altri. Come sempre faceva, in quell’inverno del 1942, senza indugio si lasciò cadere lungo lo scosceso sentiero che dai ruderi del Castello Fieschi scendeva verso il gruppetto di case della frazione, per dare l’allarme. Ormai tutti conoscevano le sue urla e, nonostante avessero costatato la sua infallibilità, continuavano a ridere di lui e della sua paura. Tavin però non se ne curava. La paura, se la portava addosso come un vestito: troppe volte, quando abitava a Genova, aveva sentito suonare l’allarme che annunciava i bombardamenti, troppe case crollate riempivano i suoi sogni, troppi grappoli di bombe, boati, notti e minestre mangiate nelle gallerie cittadine che fungevano da rifugi antiaerei. Che ne potevano sapere quei montanari? A Savignone, dove erano sfollati, non era mai caduta una sola bomba e solo chi aveva vissuto a Genova conosceva l’orrore di quella guerra che sembrava non finire mai.
Quel giorno, correndo verso la piazzetta dove troneggiava il trogolo che approvvigionava d’acqua gelida le poche casupole di Castellorosso, scorse l’alta figura di suo padre che si recava dal Marchese Crosa a consegnare l’ultimo paio di scarpe che i nobili genovesi gli avevano commissionato. Benedetto Garaventa era considerato il miglior calzolaio della Liguria. Istintivamente, il bambino guardò le sue scarpe malandate e risentì la voce di sua madre Teresa che rimproverava il marito perché non aveva mai tempo per fare un paio di scarpe per Tavin. D’altra parte, non erano le scarpe del figlio l’unico motivo di litigio fra i due. Il loro matrimonio, fortemente voluto da Cesira, madre di Teresa, che aveva scelto un uomo di 15 anni più vecchio della figlia, bello e con un mestiere avviato, si era rivelato un vero fallimento. Se Teresa era attaccatissima e quasi succube della sua famiglia, Benedetto aveva una grande repulsione verso tutti i legami famigliari ed era assolutamente incapace di dimostrare affetto e dolcezza verso chi gli stava accanto. Figlio di primo letto di un piccolo possidente terriero, Benedetto non aveva mai conosciuto sua madre, morta di parto, e quando suo padre si era risposato, la matrigna lo aveva relegato al rango di Cenerentolo.
Il ragazzo aveva finito per odiare la sua famiglia, ripromettendosi di pensare solo a se stesso e alle sue necessità. Artigiano sopraffino, produceva a mano le migliori calzature di tutta Genova e annoverava tra i suoi clienti i nobili e i notabili di tutta la città. Quando si era deciso a prender moglie, aveva cercato una giovane riservata e tranquilla e, dietro suggerimento di una sua lavorante cognata di Cesira, aveva scelto Teresa Cagnoli. La ragazza era giovane, timida e introversa e, per non contraddire la madre, entusiasta di quell’unione, aveva accettato Benedetto che era, comunque, di bell’aspetto, simpatico e con una discreta posizione economica. Dopo 10 mesi di matrimonio era nato Tavin ma neppure quella nascita aveva contribuito a riscaldare il loro rapporto. Benedetto, infatti, nonostante il matrimonio e la paternità, non aveva mutato il suo stile di vita e i suoi modi e trattava Teresa come un’estranea intrufolatasi in casa sua. Generoso e grandioso con gli amici, in famiglia lesinava le razioni di cibo e non spendeva una lira per abbellire la casa e per coccolare il bambino. L’attaccamento eccessivo di Teresa verso i suoi, memore della propria infelicità, lo mandava in bestia e, sarcasticamente, si chiedeva spesso perché fosse obbligato a dividere i suoi beni con “un’estranea”. Teresa aveva sopportato con pazienza per qualche anno poi, con un coraggio che non immaginava di avere, aveva preso Tavin e se ne era tornata dai suoi.
Ottavio 1943
Nonostante lo shock della separazione, circondato dall’affetto dei nonni e della zia Rosetta, il piccolo aveva, in parte, recuperato il suo equilibrio, mantenendo intatta la sua vitalità. All’epoca essere figlio di genitori separati esponeva a feroci prese in giro ma Tavin non si lasciava sopraffare e rispondeva con la lingua e con i pugni, a quanti insultavano sua madre. Con chi gli dimostrava affetto era vivace ed entusiasta e nella casa dei nonni aveva trovato amore e premure, mentre tutti facevano a gara per rendere felici le sue giornate e per fargli dimenticare il distacco da un padre che, nonostante tutto, amava.
Le giornate più belle erano quelle trascorse con il nonno Augusto che lo portava con sé quando si esibiva con la Compagnia di Canto Popolare San Martino. Augusto era primo tenore ed era una vera star in tutta la Liguria, capace di travolgere e stupire il pubblico con acuti strabilianti. Tavin, mascotte della Compagnia, restava estasiato di fronte a tanta bravura e sognava di poter emulare le gesta canore del nonno Cagnoli. A casa, con il concorso della madre e della zia, dotate di voci da soprano di tutto rispetto, lui e il nonno improvvisavano dei piccoli concerti d’opera, vera delizia dei vicini di casa e di coloro che passavano nel vicolo. Anche quando i nonni avevano rilevato una trattoria in Via Volturno, a Genova, il piccolo non esitava ad esibirsi: in piedi sopra un tavolo della sala accompagnato dalla chitarra del nonno, cantava con toni accorati, la famosa aria de “L’elisir d’amore” di Donizetti “Una furtiva lacrima”, suscitando la tenerezza degli ospiti. L’esecuzione era sempre seguita da applausi e doni di paste dolci, che il bambino, poco incline al sorriso, rifiutava sdegnosamente. Unico punto debole, avendo solo 4 anni, era la dizione e la celebre aria donizettiana diventava per lui “Una furtiLa Vacrima”.
Ottavio e il nonno Augusto - Genova 1937
Ora, quei tempi erano lontani, la sua vita era tutta concentrata sulla guerra e sul modo di evitare i pericoli che portava con sé. Ogni giorno Tavin aspettava l’arrivo di Pipetto. Così chiamavano quel solitario aereo nemico che, ogni sera, immancabile passava in ricognizione i cieli d’Italia. Non era un solo aereo, ma ogni paesino, ogni città, aveva l’impressione che Pipetto fosse un suo appuntamento esclusivo come un amante unico e costante. Raramente l’aereo lasciava cadere qualche bomba ma pur non arrecando molti danni materiali, ben più terribili erano le ferite che lasciava nell’anima. Coi riflessi acuiti dalla paura il bambino restava tutto il giorno nel punto più alto del paese, pronto a dare l’allarme affinché tutti potessero fuggire e rintanarsi nel buco scavato nelle rocce sotto il castello. A pensarci bene, quella tana non avrebbe mai resistito ad un vero bombardamento e solo i più paurosi correvano a rintanarvisi: la paura delle bombe era roba da cittadini. In effetti in paese non era mai accaduto nulla: sede appartata di un comando tedesco, Savignone non conosceva i bombardamenti e tutti gli orrori della guerra arrivavano come una eco lontana, attraverso i racconti degli sfollati. E Tavin di racconti ne aveva: i bengala che illuminavano il porto di Genova prima di un’incursione notturna, la preparazione della borsa con coperte e cibo da tenere accanto alla porta in caso di allarme, le minestre distribuite nei rifugi antiaerei. Per un certo periodo la famiglia era sfollata a Zoagli, piccolo paese sul mare dove abitavano i suoi bisnonni. Lì pensavano di essere al sicuro ma si sbagliavano: il ponte della ferrovia che sovrastava il paese attirò un terribile lancio di bombe a grappolo alleate. Anche là tutti lo deridevano per la sua paura e quando il paese fu ridotto a un cumulo di macerie Tavin, benché terrorizzato, aveva quasi avuto un moto di piacere nel guardare i visi polverosi e smunti dei pochi superstiti che fino a poco prima lo prendevano in giro.
Sulla guerra e sulle sue motivazioni, il bambino non aveva le idee molto chiare: a scuola, frequentata per quanto era possibile in quel periodo, sentiva lodare il Duce e i tedeschi, parlar male degli ebrei e della perfida Albione, che immaginava brutta e cattivissima. In casa, al contrario, la canzone era assai diversa: i fascisti erano “figgi de’ bagasce” (figli di puttana), degli ebrei non si discuteva e si parlottava piano di comunisti e partigiani. Tavin non capiva ma gli sarebbe tanto piaciuto poter indossare la divisa dei Balilla e andare alle colonie. Effettivamente un po’ di mare e di movimento avrebbero giovato al rachitismo che il medico aveva riscontrato. Nonna Cesira ci pensò molto ma poi, per la salute del piccolo, dimenticò la sua fiera avversione all’Opera Nazionale Balilla e lo iscrisse. Tavin ebbe la sua divisa e partì per la Colonia Marina... Non se ne seppe nulla per tre giorni ma, al quarto, Cesira se lo vide riconsegnare da un giovane fascista disperato:
- Non possiamo tenerlo in Colonia. Da quando è arrivato i bambini non fanno più il sonnellino pomeridiano. Lui organizza giochi e gli altri lo seguono. Questo bambino non accetta la disciplina! -
Cesira lo recuperò fingendo disappunto ma, in cuor suo, fu felice che suo nipote non si fosse dimostrato “un fascista perfetto”.
Fu in una notte fredda e buia che Tavin vide, per la prima volta, un partigiano.
Castellorosso era già da molto immerso nel sonno e nel silenzio. Sua madre e suo padre dormivano nella camera accanto, la nonna Cesira e nonno Augusto nella stanza vicino alla stalla, lui riposava in una branda provvisoria in cucina dove la stufa emanava un lieve tepore e una luce rossastra. Improvvisamente, due colpi violenti squassarono la porta:
- Chi è? - domandò Benedetto, avvolto in una coperta e immobile dietro l’uscio.
- Sun me, L’Ungheria. Arvi! - (Sono io, l’Ungheria. Apri!)
Tavin, mezzo sprofondato nelle coperte, spalancò gli occhi completamente sveglio: il nome temibile e misterioso del partigiano più temuto della zona riecheggiava in lui immagini avventurose come quelle dei libri di Salgari.
Suo padre ammutolito aprì la porta e nella fioca luce dell’unica candela, l’Ungheria entrò.
Col passo pesante dei suoi stivali, con le due bandoliere piene di proiettili in collo, con la faccia da eroe abbruttita dalla vita in montagna, grande e grosso come una montagna, con gli occhi di brace come il diavolo, Ungheria avanzò e la sua immagine carica di simboli e di sogni riempì gli occhi di Tavin, come lo stacco di un primo piano al cinematografo. I due uomini parlarono sottovoce: il partigiano spiegava qualcosa e la sua voce sembrava il rombo lontano di un cannone. Poi Benedetto gli offrì un bicchiere di vino che l’uomo trangugiò in un colpo, guardò per un momento il bambino immobile, si voltò di scatto e disparve nel buio.
Quella notte, Tavin non dormì: restò a pensare al suo nuovo eroe, immaginò di seguirlo in montagna a fare quelle cose da partigiano che, in verità, non gli erano ben chiare ma lo affascinavano tanto.
La mattina arrivò, umida e fredda, e come non mai il paese brulicava di sussurri e di passi di pesanti stivali teutonici. Quella notte, con uno stratagemma vecchio come il mondo, i partigiani avevano rubato tutti i cavalli dei tedeschi. Era bastato fasciare con degli stracci gli zoccoli dei destrieri, e nessuno li aveva sentiti passare.
Era stato l’Ungheria.
I genitori Teresa e Benedetto
Erano le nove di un mattino azzurro e teso di vento di mare nel borgo di Vernazzola, nel cuore della Genova di levante. La stretta viuzza acciottolata di mattoni rossi s’inerpicava ardita verso il Capo di Santa Chiara, e dalle finestre aperte sul vicolo arrivavano i rumori di un’Italia onesta e parca, segnata da un dopoguerra difficile ma febbrile. Lilli scendeva veloce la scalinata e, mentre si avviava verso il farinotto (panettiere) pregustava già la serata danzante che l’attendeva nella società operaia. In quell’Italia del ‘51 che lavorava per rimettersi in piedi, c’era anche tanta voglia di divertirsi e le sale da ballo nascevano spontanee ovunque. Anche a Vernazzola, un gruppo di giovani musicisti intraprendenti, in una fascistissima costruzione detta Hotel, aveva dato vita a un ritrovo dove le famiglie si riunivano per ballare. Indossando l’abito migliore con le più avventurose speranze d’amore, nate dalle pagine di Liala e “Grand Hotel”, le ragazze vi si recavano rigorosamente accompagnate dalle vigili genitrici alla ricerca del loro Principe Azzurro. Lilli aveva solo 16 anni, era magra ma formosa con occhi e capelli neri, e pensava a quel giovane musicista che, mentre suonava nella piccola orchestra, la domenica prima l’aveva fissata incessantemente per tutta la sera. Ottavio passava indifferentemente dal contrabbasso alla batteria, improvvisando ballabili e melodie che i frequentatori dell’Hotel sembravano gradire. Il ragazzo era l’anima del gruppo e non si tirava mai indietro, anche quando si dovevano attaccare i manifesti per pubblicizzare le serate danzanti. Lilli si era informata dalle amiche Gina e Mariuccia, che le avevano riferito che Ottavio nonostante la sua espressione seria che lo faceva sembrare più grande, aveva solo 17 anni e diceva di studiare canto. Che razza di lavoro potesse venir fuori da quello studio, per Lilli e le sue amiche era un vero mistero. Secondo l’opinione dei più saper cantare era un dono e non era certo necessario studiare: bastava aprire la bocca e dare fiato! Più in là, Lilli avrebbe capito che l’arte del canto, per riuscire al meglio, voleva sacrificio, fatica e dedizione.
In quella mattinata di sole e di salsedine ventosa, la ragazza non ebbe neppure tempo per fantasticare sul suo nuovo spasimante. Ferma in mezzo alla “creuza” (viuzza), restò a fissare incredula le pareti delle case. Dove solitamente spiccavano le persiane verdi e i vasi di “persa” (maggiorana) e rosmarino, si stagliava una lunga fila di manifesti artigianali sui quali campeggiava una frase, per nulla sibillina:
“Questa sera dove vai?
All’Hotel e non lo sai!”
Non ebbe bisogno di chiedersi chi fosse lo scellerato che aveva tappezzato la strada di manifesti: rossa di vergogna e di stizza, allungò il passo, ripromettendosi di dirne quattro allo sfrontato musicista.
Ma il suo cuore già batteva per lui.
Ottavio, ormai solo sua madre lo chiamava Tavin, aveva riempito la viuzza di quei manifesti improvvisati perché Lilli non dimenticasse di andare a ballare, quella sera. Dopo la guerra, con sua madre e i suoi nonni era andato a vivere in un appartamento nella centralissima Via Monastero, a Genova. Purtroppo i suoi genitori non si erano riappacificati e Benedetto era rimasto a vivere a Savignone, con grande dispiacere del ragazzo che mal sopportava quella situazione tanto anomala per l’epoca. Finanziariamente il padre non contribuiva al mantenimento della famiglia ma, per fortuna, i Cagnoli non si arrendevano mai. La nonna aveva avuto il posto di portinaia nello stabile dove abitavano e nel retro della guardiola mandava avanti un laboratorio di impagliatura di sedie. Anche Ottavio aveva imparato quel particolare mestiere e aiutava Cesira a portare avanti la bottega che, insieme al guadagno del nonno che era “camallo” nel porto di Genova e a quello che sua madre guadagnava cucendo in casa, permetteva loro un’esistenza dignitosa.
La sorella di sua madre, Rosetta, dopo uno sfortunato matrimonio, aveva finalmente cominciato la carriera nel mondo della lirica, debuttando nel 1948 a Lonigo, nel ruolo di Nedda nei “Pagliacci”. Con i primi guadagni, anche lei contribuiva al mantenimento della famiglia, offrendo anche qualche piccolo lusso che, diversamente, non si sarebbero mai permessi: una radio, un bel cappotto di cammello e una lobbia elegantissima per Ottavio. Con quell’abbigliamento inconsueto per la sua età, che lo faceva assomigliare ad un vero cantante lirico, Ottavio si presentava ogni domenica all’Hotel per organizzare i pomeriggi danzanti e, soprattutto, per vedere Lilli. La bella sedicenne apprezzava la sua corte irruente e i suoi genitori le permettevano di frequentarlo naturalmente sotto la loro stretta sorveglianza. Maria e Agostino erano nati nel piccolo borgo marinaro e, persone semplici e all’antica, non avevano la minima idea di cosa fosse lo studio del canto e di quale avvenire ne potesse sortire per la loro unica figlia. Agostino era cuoco sulle navi mercantili e, pur non amando quel mestiere, rimaneva molti mesi lontano da casa per consentire un’esistenza tranquilla alla sua piccola famiglia. Maria si dedicava invece alla figlia con tutta la sua dedizione. Lilli aveva sempre i più bei vestiti di tutta Vernazzola, capricciosa nel mangiare, a lei erano riservati i bocconi migliori e come d’uso era guardata a vista in ogni sua attività.
Quando Ottavio andava a prenderla sotto casa, Maria li osservava soddisfatta ma non mancava mai di aggiungere la solita raccomandazione:
- Non passate dalla spiaggia! -
C’era buio e deserto, infatti, e non era posto da ragazze per bene.
Se mai vi siano passati non è dato sapere giacché Lilli, di carattere assai riservato, non lo svelò mai. Da lui, più ciarliero e espansivo, si seppe che un giorno si appartarono in un prato e quando fu l’ora di rientrare, Lilli accortasi di avere una minuscola traccia d’erba sulla gomma ne fu sconvolta. Vergognosa di quella prova che macchiava la sua onestà, piangendo, dichiarò che sarebbe morta lì. Per fortuna le innegabili doti da imbonitore di Ottavio ebbero la meglio. Lilli tornò a casa e dopo 9 anni di fidanzamento, il 19 Agosto del 1959, stremata dalle insistenze di lui nonostante un futuro ancora incerto, lo sposò nella Parrocchia della SS. Annunziata di Sturla.
Ottavio non poteva ancora immaginarlo ma quella moglie bellissima e discreta, sarebbe diventata il perno della sua vita e della sua famiglia. Poco espansiva e un po’ brontolona, Lilli gli sarebbe stata sempre accanto, sempre pronta a sostenere il suo nucleo famigliare anche nelle prove più difficili.
E, purtroppo, nella loro lunga esistenza, le prove difficili sarebbero state molte.
Ottavio aveva le idee chiare: voleva diventare un grande cantante, come sua zia. I due, separati da soli 11 anni, avevano ereditato la passione per il canto da Augusto, rispettivamente loro padre e nonno, e avevano cominciato a cantare insieme in improbabili duetti casalinghi. Ottavio, a soli 6 anni, interpretava, con piglio severo il ruolo di papà Germont, da “La traviata” di Verdi, e Rosetta gli rispondeva come Violetta. Durante la guerra appoggiavano l’orecchio al muro della cucina e, zitti zitti come topolini, ascoltavano i concerti dalla radio della vicina di casa che poteva permettersi l’innovativo apparecchio.
Col nipote, dodicenne in calzoni corti, Rosetta aveva sostenuto l’audizione per entrare nella scuola del Maestro Piero Magenta.
Entrare in quella scuola era come entrare in un mondo parallelo di cui Magenta era l’indiscusso signore. L’avvocato Piero Magenta non aveva mai cantato ma era un ottimo pianista e un attento ascoltatore e, con gli anni, aveva messo a punto una sua tecnica vocale basata soprattutto sul buon uso della respirazione. Consolidata la sua posizione lavorativa alla Banca del Lavoro, aveva aperto una scuola in piazza Cernaia a Genova e divideva il suo tempo libero tra gli allievi, la moglie Marcella e il piccolo cane chiamato pomposamente Gigetto Parodi. La scuola si era riempita velocemente. In quel febbrile dopoguerra il canto poteva essere un’opportunità per raggiungere fama e ricchezza, e le scuole nascevano come funghi ed erano piene di giovani speranzosi. I teatri, benché spesso danneggiati dai bombardamenti, come il “Carlo Felice” che mancava completamente del tetto, raffazzonati alla meglio avevano ricominciato a funzionare ed erano sempre gremiti. Arrivare al successo non era facile ma anche per chi non avesse raggiunto l’Olimpo canoro ci sarebbe sempre stata un’onesta carriera di comprimario o di corista. Tra le tante scuole, più o meno valide e oneste, quella di Magenta era certamente la più bizzarra. Innanzi tutto, a differenza di altri insegnanti che spesso pretendevano il pagamento mensile anticipato, le lezioni di Magenta erano gratuite e molte volte si concludevano in trattoria, dove il maestro offriva generosamente il pranzo a tutti gli studenti. In caso di raffreddore o bronchiti, li forniva di medicinali e vitamine e come fossero suoi figli teneva sul pianoforte la fotografia di ognuno di loro. Tali foto fungevano anche da barometro per verificare l’umore del maestro e il suo gradimento verso questo o quell’allievo. Quando uno studente lo faceva inquietare, alla lezione successiva trovava la sua fotografia sdraiata sul pianoforte a faccia in giù, e doveva essere pronto a subire pubblicamente i rimproveri del caso. Si aggiunga poi che il maestro amava appioppare, ad ogni allievo, un soprannome che scaturiva dalle qualità vocali o di carattere. Rosetta era Cita, perché minuta e attivissima, c’era Camomilla, soprano bionda e tranquilla, c’erano il Gatto e la Volpe e pure Pinocchio. A Ottavio che, a quell’età, aveva una voce ancora sgraziata e in divenire era stato imposto il poco onorevole nome di “Von Strasse”. Per comprenderne il significato è sufficiente sapere che, in dialetto genovese, le “strasse” sono gli stracci che gli straccivendoli andavano cercando e vendendo urlando per i vicoli della città. Nonostante la poca grazia della sua voce, Ottavio era stato ugualmente ammesso alla scuola e aveva iniziato a studiare da baritono.
Da quella scuola sono usciti grandi nomi della lirica, oltre a Rosetta e Ottavio: il tenore Giuseppe Campora, il basso Piero Campi, il grande comprimario Piero De Palma, e il tenore genovese Ugo Benelli che conobbe il maestro proprio grazie alla presentazione di Ottavio. Il giovane baritono, col suo carattere socievole e disponibile imparò da tutti qualcosa di utile per il suo futuro. Tante volte, dopo le mangiate in trattoria, tornavano nello studio del maestro e rinvigoriti dal cibo sostanzioso mettevano in piedi improbabili spettacoli. La stanza diventava un palcoscenico: una poltrona fungeva da trono o da letto, una scopa diventava alabarda, il plaid del maestro era un perfetto mantello e la maestria di Magenta trasformava il semplice pianoforte in una grande orchestra. Come bambini che, giocando imitano i gesti dei grandi, così provavano le loro forze cantando in quel luogo protetto nell’attesa di gettarsi nella mischia della realtà.
La vita di Ottavio aveva finalmente trovato una meta verso cui puntare ma, nonostante la gratuità delle lezioni, era necessario trovare un lavoro sicuro che lo mettesse in grado di non pesare sul bilancio famigliare. Senza paura e senza arretrare davanti a nulla, perseguendo il suo progetto accettava qualunque lavoro: fu garzone di pasticceria, venditore di pandolci monoporzione per Panarello durante le partite di calcio allo stadio Ferraris, fattorino per il negozio Ghio che vendeva radio ed elettrodomestici, comparsa al Teatro Carlo Felice. Per un certo periodo fu anche venditore di bigiotteria presso le profumerie. Un amico lo riforniva di tutto l’occorrente per assemblare collane, braccialetti e altri “gioielli” e tutta la famiglia, compresa Lilli, s’industriava a creare la bigiotteria col fantasioso marchio Garven.
Piano piano, anche Lilli cominciò a capire la grande passione di Ottavio e prese a frequentare timidamente il gruppo dei cantanti prendendo confidenza con quel mondo così lontano dal suo. Mentre la zia prendeva il volo, riscuotendo grandi successi in tutti i più grandi teatri d’Europa, Ottavio continuava lo studio, senza sosta. Alle lezioni di tecnica con Magenta, alternava quelle di spartito, con l’insegnante Elvira Sotteri. In un grande e tetro appartamento di Via Aquarone, la Sotteri con un abbigliamento e un trucco che la facevano assomigliare ad una Moira Orfei formato mignon, insegnava romanze e intere opere. Quando si entrava nella stanza dov’era collocato il modesto pianoforte verticale, si aveva l’impressione di tornare indietro nel tempo all’epoca Liberty. Ninnoli sparsi ovunque, infinite foto alle pareti e, sul pianoforte, una lampada con un cappello fiorito e frangiato rifiniva il quadro. La maestra cominciava a suonare con garbo, così come parlava, in genovese, col tipico “birigniao” di quelli che abitano nelle zone bene, ma, procedendo nella lezione e nei rimproveri, i suoi modi garbati andavano scomparendo per lasciare il posto a suoni più violenti e a un eloquio assai più popolare. Ottavio la travolgeva con la sua irruenza e, anche quando sarebbe passato ad altri insegnanti di spartito avrebbe continuato, magari saltuariamente, a frequentare la bizzarra insegnante che ogni volta che lo rivedeva mugugnava, ripetendo lamentosamente:
- Ooooottavio, ti sei dimenticato della tua maestra! -
Ma la signora Elvira non era l’unico riferimento di tutti gli allievi di Magenta. Una volta sbozzati gli spartiti con l’insegnante genovese, si doveva fare un salto di qualità per affinarli completamente. Bisognava imparare le consuetudini non scritte, i tempi corretti e tutto ciò che occorreva per poter eseguire l’opera in teatro. Per far questo occorreva un direttore d’orchestra, meglio, un ottimo direttore.
Federico Del Cupolo era l’uomo giusto. Quell’omino, piccolo e bruttino, con una moglie pazza d’amore per lui e una figlia zitella, sempre alla ricerca di un marito, era uno dei più grandi direttori del mondo. Aveva diretto in numerosi grandi teatri e fra i suoi amici ed estimatori, annoverava Enrico Caruso, Pietro Mascagni, Giacomo Puccini e Ildebrando Pizzetti. Imparare un’opera con lui era come attingere alla fonte di Euterpe. E Ottavio, con la sua imberbe voce baritonale, bevve, bevve a volontà e, nel 1955, vinse il Concorso Nazionale Di Canto E.N.A.L. La vittoria fu inebriante e, grazie a Del Cupolo, debuttò sotto la sua direzione nel “Lòhengrin” di R. Wagner nel ruolo dell’Araldo.