Alessandro Conte
L’Uomo con il sacco

Titolo L’Uomo con il sacco
Storia e leggende nel ponente genovese
Autore Alessandro Conte
Genere Narrativa - Romanzo      
Pubblicata il 06/07/2017
Visite 5368
Editore Liberodiscrivere® edizioni
Collana Il libro si libera  N.  169
ISBN 9788893390484
Pagine 336
Prezzo Libro 15,00 € PayPal

Versione Ebook

ISBN EBook 9788893390491
Prezzo eBook 4,90 €
Genova, seconda metà dell'Ottocento: nelle campagne di Sestri un carabiniere, un prete e un socialista tentano di salvare un bambino scomparso.
Sestri, 1974: un uomo cerca di dare un significato alle paure della sua infanzia.
Ancora Sestri, 2010: da una fabbrica dismessa riemerge un cadavere senza nome; una donna dovrà sciogliere l'enigma, che si colora dell'antica leggenda dell'Uomo con il sacco.
Sullo sfondo la parabola industriale di Genova.
Il romanzo è corredato da una appendice di taglio storico.
 
Ho deciso.
Devo, anzi voglio, scoprire cosa è vero e cosa non lo è.
Ancora prima: verificare se è davvero una storia o non è, piuttosto, una somma di coincidenze, di indizi senza correlazione.
Non si tratta forse di cose lontane fra loro, nel tempo? Certo, non sempre. Certo, comunque negli stessi luoghi. Certo, a volte con le stesse persone.
E quelle antiche e appena mormorate allusioni che mia nonna in certe sere mi raccontava, per poi negarsi quando, poco più che bambino, le chiedevo di spiegare.
Allusioni scomparse al tempo della mia adolescenza, per tornare a essere pronunciate nelle sue ultime settimane di vita, quando mescolava la memoria alle allucinazioni portate dalla malattia.
Mezze frasi, che sarebbero rimaste tali se la settimana scorsa non mi fossi imbattuto in quel rigattiere.
Avevo appena acquistato, come sempre, il giornale dall’edicolante all’angolo, un uomo più o meno della mia età, sulla quarantina, ma che sembra più vecchio di svariati anni. Anche il nome non è dei più contemporanei: si chiama Amedeo. Non è di molte parole, come quasi tutti noi genovesi, ma tutto sommato è gentile e in fondo simpatico.
Dopo aver messo il giornale, debitamente arrotolato, in una tasca della giacca pregustandone la successiva lettura nella tranquillità del salotto, ho dovuto modificare i miei programmi, per via di un imponente corteo di operai.
Ho letto gli striscioni e la determinazione sui loro volti, manifestano contro la perdita del lavoro.
I cortei si stanno moltiplicando, di pari passo con le industrie in crisi.
Mi chiedo se è qualcosa di transitorio, di momentaneo, o non si tratti dell’inizio di qualcosa di profondo e se, fra qualche anno, Sestri Ponente sarà ancora il nocciolo industriale di Genova.
Divago, ma voglio tornare al punto.
Se non avessi cambiato strada non sarei passato, per abbreviare un giro altrimenti troppo lungo, nel vicoletto con la bottega del rigattiere.
Non era la prima volta che transitavo davanti a quella porta a vetri, dietro la cui sporcizia si intravedono cumuli di materiali accatastati. In genere ne restavo indifferente, a volte infastidito da quel disordine privo di logica.
Ma la settimana scorsa, in bella vista proprio dietro la porta, c’era un cumulo di riviste su cui spiccava una vecchia e colorata copertina della Domenica del Corriere.
Sono sempre state la mia passione, sino da bambino quando scorrevo la collezione di mia nonna, purtroppo incompleta: quella copertina, che colpo di fortuna mi sono detto, non l’avevo mai vista.
Un’occasione che non volevo perdere, così sono entrato.
Una ciliegia tira l’altra, si dice, e il rigattiere voleva tentarmi con altre riviste che non mi interessavano affatto.
Poi un giornale, di prima dell’ultima guerra, scivolò dalla pila.
Mi chinai a raccoglierlo: era aperto su una pagina interna, con un titolo e una foto a lato che mi colpirono, subito.
Tornato a casa con i miei acquisti, non pensavo né al quotidiano fresco di stampa né alla colorata copertina della Domenica.
Ho disteso il vecchio giornale sul tavolo, è del trentotto e le prime pagine sono piene di titoli entusiasti sul Duce paciere fra Hitler e le demoplutocrazie occidentali. Titoli e pagine che ho saltato, per leggere con calma l’articoletto, con quel titolo che mi aveva subito ricordato qualcosa, un’atmosfera più che un episodio, di quando ero poco più di un bambino. Qualcosa che avevo sentito dire, l’allusione a una spaventosa disgrazia capitata a una famiglia che abitava poco distante e l’espressione di mia nonna: ora che mi è tornata alla mente mi sembra di averla di fronte, vera e viva, lo sguardo basso, le mascelle serrate e quella frase mormorata: ci risiamo. E alle mie domande, nessuna risposta e l’invito a tornare ai miei giochi con i soldatini, forzuti e luccicanti fanti italiani e smunti e laceri negretti del Negus. Chissà che fine hanno fatto, interesserebbero a quel rigattiere.
Ho sfogliato il resto del giornale con attenzione, ma non ho trovato altro di attinente a quella notizia.
Così mi sono abbandonato ai ricordi, nel flusso ininterrotto dei fantasmi della mia infanzia, dei babau che mia nonna mi raccontava per farmi stare buono, mordendosi poi le labbra come se fosse andata troppo oltre. Inducendomi così a pensare, ricordando quegli episodi, che forse era rimasto qualcosa di non detto.
Tutti quei bambini. Possibile che non siano leggende, o al più sparizioni senza rapporto fra loro?
Devo riannodare quei fili e scoprire se portano a un disegno coerente oppure, come spero, a nulla.
Sarà una ricerca a tempo pieno, ma non è un problema: non ho altri impegni, non lavoro e non ne ho mai avuto bisogno.
Mi fermerò solo quando avrò raggiunto la meta.
 
 
 
Capitolo I
Genova, 14 giugno 2010
 
Sonia Breschi aspettava l’autobus per recarsi allo stabilimento della SIRS, nel quartiere genovese di Sestri Ponente.
A Milano, la mattina del giorno precedente, aveva firmato il contratto di lavoro nell’ufficio di Gianfilippo Goardo, il proprietario dell’azienda, un uomo prossimo ai cinquanta anni, di bell’aspetto e che non guardava negli occhi l’interlocutore.
La proposta le era giunta la settimana prima da una segretaria, per telefono, distogliendola dai lavori di casa.
Alla ventinovenne ingegnere un contratto di consulenza, dopo mesi di disoccupazione, era sembrato manna dal cielo e sua madre, che viveva con lei a Ferrara, l’aveva subito spinta ad accettare: “Vai tranquilla. Me la cavo anche da sola, non sono mica vecchia, non ancora!” aveva detto aprendo una valigia. “E mettici dentro qualcosa di carino … Non si sa mai” aveva aggiunto senza trattenere una smorfia osservando i leggings che la figlia aveva preso dall’armadio, pensando che prima di indossare abiti aderenti avrebbe dovuto perdere qualche chilo.
Dopo la firma del contratto, Sonia aveva proseguito in treno per Genova, dove avrebbe alloggiato in un monolocale ammobiliato nella zona di San Benigno, un complesso di grattacieli che aveva preso il posto delle case dell’antica Coscia di Sampierdarena, borgo scomparso di ricamatrici, pescatori e minolli, che a bordo dei loro leudi entravano nel porto di Genova per zavorrare i velieri ormeggiati.
A San Benigno la attendeva Ernesto Velesio, dipendente della SIRS da oltre vent’anni e che aveva trascorso le ultime settimane organizzando l’ufficio in un prefabbricato, poco più che un container, messo in piedi nel piazzale davanti allo stabilimento sestrese, dismesso da mezzo secolo.
Ora che stava per cominciare, la giovane donna temeva che il collega, di una quindicina di anni più grande e con una solida esperienza impiantistica, nonostante l’atteggiamento amichevole avrebbe mal sopportato di condividere con lei la responsabilità del progetto, tutt’altro che banale: la bonifica di uno stabilimento industriale fatiscente, dove sarebbero stati i primi a entrare da quando era stato chiuso.
Non preoccuparti: anche tu hai un po’ di esperienza, la tranquillizzava l’immaginaria voce materna che, se richiesta, le avrebbe detto qualcosa del genere. Non possiamo mica campare con quei quattro soldi della mia pensione e della reversibilità di quella di tuo padre! avrebbe aggiunto, se le avesse confidato i suoi timori.
“E adesso sono a Genova. E lavoro.” sussurrò Sonia salendo sull’autobus per Sestri Ponente, sentendosi comoda nei leggings e nelle scarpe sportive.
 
Velesio era arrivato in anticipo, quel tanto da consentirgli un secondo caffè in un bar poco distante dallo stabilimento. Mancava da Genova da un anno ed era contento di essere tornato nella sua città di origine, anche se solo per alcuni mesi. Da quando aveva divorziato, tre anni prima, nulla lo tratteneva a Milano se non la necessità di recarsi ogni giorno in ufficio.
Ho fatto bene a tenermi la casa dei miei, aveva pensato quando Goardo gli aveva detto che, nei mesi successivi, avrebbe dovuto progettare la bonifica dell’impianto genovese della Società Industrie Riunite Sestri.
In realtà, dopo la morte della madre Ernesto aveva pensato di vendere l’appartamento. Ma non lo aveva fatto: il mercato immobiliare offriva molto meno di quanto avrebbe voluto ricavarci.
Così l’appartamento era rimasto chiuso e completo di tutto il mobilio, inclusa la sua camera di bambino e poi di ragazzo.
Camera che lo avrebbe di nuovo ospitato: dormire nel letto che era stato dei genitori, dove era stato concepito, non gli andava per niente.
Guardò l’orologio e accese una sigaretta. La donna non era ancora arrivata e il guardiano era andato a comprare un paio di giornali, con i quali avrebbe reso il suo compito meno noioso.
La SIRS, nata oltre un secolo prima in quello che era ancora il Comune di Sestri Ponente, poi trasformato dal Fascismo in un quartiere della Grande Genova, a Sestri non produceva più nulla dagli anni Sessanta del Novecento.
Da quindici anni, inoltre, era andato via da Genova anche l’ufficio di progettazione, che dopo la chiusura degli impianti era stato ridimensionato e collocato in una elegante palazzina nel quartiere residenziale di Albaro.
Adesso i progetti si facevano a Milano, la produzione in Piemonte e da qualche anno anche in Marocco.
L’uomo spense la sigaretta.
“Eccomi!” la voce squillante di Sonia Breschi lo sorprese immerso nei propri ricordi.
Contraccambiò il saluto e la invitò a seguirlo nel prefabbricato.
“Ma … il guardiano?”
“Arriverà a momenti … Tranquilla, qui non c’è nulla da rubare: se i cancelli restano aperti per qualche minuto non succede niente.”
“Sì, ma è un sito pericoloso, è meglio non lasciare l’ingresso incustodito.”
“Come vuoi” disse l’uomo alzando le spalle, “aspettiamo Gino.”
 
 
Capitolo II
Pegli, agosto 1873
 
Carletto Dagnino era sceso dalla sua barca entrando scalzo in acqua, incurante di bagnarsi le brache. Era mattino presto, l’aria era rovente e il mare sembrava un brodo caldo.
Spinse la piccola lancia sulla riva, quel tanto da bloccarla, quindi con l’aiuto di un argano la tirò in secca sulla spiaggia di sabbia e piccoli ciottoli.
A dispetto della bassa statura e dell’aspetto smilzo era dotato di una forza straordinaria, nel fisico e nel carattere. Quest’ultima era stata una alleata preziosa quando aveva dovuto affrontare il carcere, dove aveva soggiornato per cinque anni bollato come sobillatore, seguace di Giuseppe Mazzini.
Scontata la pena, dopo avere girovagato per alcuni mesi nel giovane Regno d’Italia in cerca di lavoro, era emigrato in Francia. Si trovava a Parigi quando cadde il Secondo Impero e poi durante la Comune di Parigi, era il 1871, dove il repubblicano Dagnino mentre combatteva era diventato socialista. Dopo la sconfitta era fuggito, scampando all’arresto e alla fucilazione o, nel migliore dei casi, alla deportazione nell’Isola del Diavolo.
Tornato in Liguria si era stabilito a Pegli dove aveva alcuni amici, preferendola alla natia Sestri, per evitare i troppi pregiudizi su di lui, e anche a Cornigliano, dove anni prima aveva lasciato rancori non ancora sopiti.
A trentanove anni, senza una famiglia a parte dei lontani cugini, si dedicava ad animare una società operaia di mutuo soccorso e se la cavava facendo il pescatore, un lavoro che gli piaceva per l’indipendenza che gli dava e per le ore trascorse all’aria aperta. Al chiuso si era sempre sentito soffocare e questo aveva reso ancora più dura la detenzione, tanto da fargli attendere con ansia il momento in cui, con la catena ai piedi, usciva dalla cella per andare a spaccare pietre in una cava.
La pesca era stata discreta e dopo la vendita del pescato sulla spiaggia si avviò verso casa, portandosi il polpo che aveva trattenuto per sé. Una volta lessato, unito a due patate bollite gli avrebbe fatto da pranzo e da cena.
Abitava in un modesto appartamento, due stanze in tutto, in un caseggiato poco distante dalla foce del torrente Varenna. Al di là del corso d’acqua c’era Multedo, comune incuneato fra Pegli e Sestri, con la chiesa che svettava su una collina e più in basso la massa verdeggiante del giardino della villa dei Rostan, con il palazzo munito di guardiole e una possente torre, eredità di un passato in cui i pirati barbareschi non disdegnavano le incursioni sulle coste liguri.
Posato il polpo sul ripiano in marmo del tavolo, Carlo si tolse le scarpe e i calzoni irrigiditi dal sale e si abbandonò sul letto, bisognoso di qualche ora di sonno.
L’appetito lo risvegliò verso le due, troppo tardi per gustare il polpo che in vista della cena mise a bollire in una pentola d’acqua, tenuta da parte dal giorno prima, e si accontentò di alcune gallette.
Lesse alcuni capitoli di un libro e quindi si recò al circolo, per una partita a dama e per fare due chiacchiere.
 
Il salone del circolo era quasi deserto. Nella luce gialla delle lampade a kerosene risaltavano i colori caldi dei disegni sulle pareti: il più elaborato, opera di un medico già garibaldino e pittore dilettante, raffigurava il Sole dell’Avvenire che vegliava su un corteo di uomini e donne in marcia.
Bella donna, pensava il pescatore, ricordando chi aveva fatto da modella per una protagonista del dipinto, e intanto sbagliò una mossa sulla scacchiera consentendo all’avversario, un uomo anziano dal volto duro e scavato come un vecchio legno impregnato di salsedine, di andare rapidamente in dama.
Si lasciò sfuggire una imprecazione, quindi volendo salvare la partita si concentrò sul gioco e non si accorse, nonostante il silenzio, del sommesso scalpiccio di una ragazza che dopo essere entrata si era avvicinata al loro tavolo.
Dagnino sussultò al contatto della mano della cugina, posata sulla spalla.
“Rina, cosa ci fai qui?” domandò voltandosi per un breve momento verso di lei.
“Ti devo parlare.”
“Dopo, voglio provare a vincere” replicò senza distogliere lo sguardo dalla scacchiera.
“È importante, Carlin. E poi devo tornare a Sestri, non posso fare tardi.”
“D’accordo, vorrà dire che abbandono. Hai vinto, amico mio” disse Dagnino guardando negli occhi l’avversario, che alzò le spalle e si versò da bere.
“Vieni, usciamo” disse la ragazza.
Fuori dal circolo erano attesi da una giovane donna, anche lei vestita di un lungo abito rappezzato e con sopra un grembiule altrettanto liso, scalza e con un fazzolettone sul capo.
“Questa è Maria, una amica” disse Rina.
“Mmm … sei tu che vuoi parlarmi” disse Carlo rivolgendosi alla cugina, “o è lei?”
“Per la verità sono io” rispose Maria. “Rina mi ha consigliato di parlare con voi e ha insistito così tanto che sono venuta, anche se non credo che potete aiutarmi.”
 
 
Diario, 16 luglio 1974
 
Giorni interi trascorsi in un archivio polveroso: per niente.
Forse dovrei essere più paziente e meticoloso, però mi sono convinto, per intuizione e non per ragionamento, che non è lì che troverò qualcosa.
Il problema è che non so cosa cercare: ora come ora, infatti, sto racimolando notizie che spero possano trasformarsi in tessere per un puzzle troppo incompleto, con l'augurio che sortisca una figura e non uno scarabocchio.
Questa sera ho consumato una cena a dir poco parca: un uovo al tegamino con un po’ di pane, però accompagnato da un bicchiere di Sancerre.
Sono stanco.
Domani, comunque, continuerò: spero di trovare conferme sulle sparizioni di bambini, risalendo indietro nei decenni passati.
Se quello che temo è vero, se c’era un metodo in quella follia, l’indizio si rivelerà nella regolarità degli avvenimenti. Oppure la casualità mi dirà che non era vero niente.
Genova, seconda metà dell'Ottocento: nelle campagne di Sestri un carabiniere, un prete e un socialista tentano di salvare un bambino scomparso.
Sestri, 1974: un uomo cerca di dare un significato alle paure della sua infanzia.
Ancora Sestri, 2010: da una fabbrica dismessa riemerge un cadavere senza nome; una donna dovrà sciogliere l'enigma, che si colora dell'antica leggenda dell'Uomo con il sacco.
Sullo sfondo la parabola industriale di Genova.
Il romanzo è corredato da una appendice di taglio storico.

 

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