Maria Loiaconi
Colomba

Titolo Colomba
La storia di una donna nel paese di Maenza ai primi del ‘900
Autore Maria Loiaconi
Genere Narrativa - Memoria del Territorio      
Pubblicata il 07/12/2018
Visite 1543
Editore Liberodiscrivere® edizioni
Collana Spazioautori  N.  3729
ISBN 9788893391443
Pagine 84
Prezzo Libro 12,00 € PayPal

Versione Ebook

ISBN EBook 9788893391450
La storia di Colomba non è frutto della fantasia dell’autrice ma pura realtà, vissuta dalla protagonista. Benché personaggi ed eventi facciano riferimento ai primi del novecento, la vita raccontata è molto dura e fa pensare più al Medio Evo. La situazione era simile in quasi tutti i paesi d’Italia.
La guerra porta disagi, paura, ma quello che vivevano i contadini a quei tempi era pura lotta per sopravvivere.
Si racconta anche della “Spagnola”, un flagello che colpì tutti anche adolescenti e bambini. Per non parlare di altre malattie, e delle cure inesistenti o “fai da te”.
Sono evidenziati durezza della gente, le liti per un pezzo di terra e parenti che si accapigliavano continuamente. Ma non tutto era negativo, a volte c’era anche la solidarietà, le feste e, in particolare, l’aiutarsi a vicenda.
Eppure il paese di Colomba non era nel terzo mondo, era a un centinaio di chilometri dalla grande Roma.
L’autrice ha inserito nel testo tante foto come testimonianza del luogo ma anche ricordi di famiglia e di personaggi che vissero allora.
 
Una nebbiolina sottile, impalpabile, impregnava di umido i muri, le stradicciole di pietra ciottolate. Era la fine di settembre e si respirava aria autunnale. A oriente il cielo si tingeva di rosa nelle prime ore del mattino. Il chicchirichì di un gallo e il raglio di un asino ruppero quel silenzio profondo che invadeva il paese alle prime ore dell’alba.
Un uomo dall’apparente età di ventisei anni uscì frettolosamente da una misera casa e s’incamminò a passo svelto in una delle tante viuzze che separavano le abitazioni abbarbicate una sull’altra nella collina.
L’aria fresca del mattino fece correre un brivido per tutto il corpo dell’uomo, il quale si tirò su il bavero della logora e misera giacca. Camminò per un po’con l’ansia che gli stringeva il cuore. Non era la prima volta che Maria partoriva, ma l’evento in se stesso portava ansia e timore. Arrivò finalmente davanti al portone di un’antica casa dove abitava Sora Rosa, l’ostetrica del paese era tra un piccolo fabbricato in pietra costruito forse duecento anni prima che si distingueva dalle altre casupole perché gli antichi proprietari dovevano essere benestanti o forse di famiglia nobile Al primo piano c’erano la cucina, un salottino e un’altra camera che usavano per tante cose in particolare per mettere ceste piene di prodotti della campagna, sacchi e attrezzi da lavoro. Nel piano superiore c’erano due camere da letto, una per lei e il marito, l’altra per i due figli, c’era anche un piccolo gabinetto, forse unica abitazione con questo servizio. Sora Rosa era vissuta da giovane parecchio tempo lontana, i paesani dicevano che era andata a studiare in città, ma nessuno sapeva se si era diplomata o no, il fatto è che esercitava quella professione con fare sicuro ed energico. Appena arrivata in paese teneva un atteggiamento da gran signora, poi col tempo aveva perso ogni finezza e si sarebbe benissimo scambiata con una qualsiasi contadina del posto. Aveva cinquant’anni, era grassa e con la pelle bruciata dal sole, anche perché possedeva oliveti e vigneti che portava avanti insieme al marito. Aveva un linguaggio da persona senza istruzione e spesso scurrile.
L’uomo alzò gli occhi verso la grande finestra con la speranza di vedere uno spiraglio di luce, ma era tutto buio e silenzioso. Allora con la palma della mano bussò forte due, tre volte. Poco dopo un’anta si aprì e apparve la sagoma di una donna che con voce assonnata chiese:
- Chi è? Che c’è?
- Sora Rosa vieni mia moglie ha le doglie!
- Siete sicuri che sono doglie? Non sarà un mal di pancia!
- No, vieni ha rotto le acque!
 
Piazza S. Reparata Maenza (LT)
 
La donna si stropicciò gli occhi e con rassegnazione disse:
- Ora mi vesto e arrivo, intanto prepara l’acqua calda.
Quello riprese il cammino in senso inverso. Ormai era quasi giorno; ora si delineavano meglio le case, le finestre, le porte, i poggioli. I rumori si facevano più forti. Nell’aria si diffondeva l’odore di legna bruciata e il profumo del caffè d’orzo per la colazione. Erano quasi tutte famiglie di contadini o pastori che si alzavano all’alba, si lavavano in un catino e preparavano quanto serviva loro per la giornata di lavoro. Spesso portavano anche il cibo o legumi che cucinavano sul posto.
Pietro, questo era il nome dell’uomo, sembrava avere le ali ai piedi. Le sue grossolane scarpe picchiavano sul selciato come mazze sul tamburo. Appena arrivato a casa, spinse la porta che aveva lasciata socchiusa e salì quei tre gradini che portavano all’unica stanza che fungeva da tutto: cucina, saletta, camera da letto. Una vampata di odori l’assalì: puzza di letame che proveniva da sotto il pavimento di tavole, da escrementi e orina. Ma per lui quelle inalazioni erano cose normali, erano gli odori della sua casa. Andò al capezzale della moglie e le chiese come si sentiva. La donna era in preda a una forte doglia, rispose con un lamento. Lui l’accarezzò sulla fronte madida di sudore e le sorrise come per dirle: - coraggio!
In un angolo della stanza seduti su un lettino, tristi e spaventati c’erano Vincenzo di sei anni e Giovannino di quattro. Pietro si avvicinò ai piccoli e li abbracciò come per dir loro: state tranquilli è una cosa normale, mamma vi darà un fratellino o una sorellina. Poi rivolto a Vincenzo gli disse: svuota l’orinale che è sotto il letto che sarà certamente pieno, fatto questo va ad accompagnare Giovannino da zia Filomena. Poi corri da nonna Antonietta e dille di venire subito qua che mamma sta partorendo. Il bambino assentì con il capo. Senza farselo ripetere andò dritto verso il letto della madre si abbassò e tirò fuori il vaso da notte ormai quasi pieno. Il piccolo lo sollevò con cautela: pesava troppo e forse non ce l’avrebbe fatta a sollevarlo. Ce la fece e si avvicinò piano piano alla porta, però arrivato ai gradini inciampò, ma riuscì a rimanere in piedi. Due grossi schizzi di orina gli colarono sulle gambe. Vincenzo imprecò e cercò di tenere il vaso più fermo possibile. Giovannino gli stava dietro come volesse aiutarlo, ma come lo vide traballare indietreggiò per paura di essere anche lui innaffiato da quel liquido puzzolente. L’aria fresca del mattino allontanò per un attimo l’odore che mandava l’orinale. Vincenzo respirò a pieni polmoni poi si avvicinò al buco coperto da una lastra di pietra che spostò e vi versò il contenuto del vaso da notte.
A quei tempi non esistevano nelle case dei contadini gabinetti o bagni, il Comune aveva comunque provveduto a una rete fognaria che attraversava le vie del paese e, accanto a ogni abitazione, vi era uno sbocco all’aperto che serviva per versarci gli escrementi.
Vincenzo riportò il vaso vuoto in casa e lo ripose sotto il letto dove l’aveva preso. Alzò gli occhi e vide la madre torcersi per i dolori del parto e si chiese perché per mettere al mondo un bimbo si doveva soffrire tanto. Cercò di avvicinarsi di più a lei, ma il padre lo allontanò dicendogli:
- Fai come ti avevo detto.
Giovannino lo aspettava davanti alla porta per andare da zia Filomena. Aveva tanto sonno e avrebbe voluto restare a letto, così chiese al fratello:
- Perché non mi hai lasciato a casa a dormire? Perché devo andare dalla zia? - Vincenzo rispose:
- Perché mamma deve partorire e tu non puoi guardare.
- Che vuol dire partorire?
- E come quando la capra fa il capretto.
- E perché non posso guardare anch’io?
Vincenzo seccato disse:
- Perché… perché… Uffa! Perché sei piccolo e certe cose non li puoi guardare!
Giovannino non molto convinto della risposta del fratello, un po’ brontolando continuò a camminare per andare da zia Filomena.
Arrivati, Vincenzo bussò forte alla porta finché quella si aprì. Sulla soglia apparve la zia con il suo viso sparuto e secco. Appena vide i due piccoli chiese:
- Come mai siete qui a quest’ora? Che è successo?
- È perché la mamma ha le doglie - rispose il fanciullo.
- Che ne sai tu di doglie?
- Non lo so, me lo ha detto mio padre.
 
Filomena era la maggiore delle sorelle di Maria: Aveva quarantadue anni, ma ne dimostrava molti di più. Era magra, allampanata, senza nessuna grazia o femminilità, Quando il marito l’aveva sposata, era appena quindicenne, anche se bruttina, aveva la freschezza della gioventù. Poi con il passar degli anni, la fatica, la miseria e il duro lavoro della terra, la sua pelle si era raggrinzita, e il viso diventava sempre più scarno e rugoso. Però aveva un cuore d’oro, avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di aiutare gli altri. Dal suo matrimonio erano nati quattro figli. Mentre era incinta del quarto una disgrazia l’aveva resa vedova. Per sopravvivere e sfamare le sue creature si era adattata a qualsiasi lavoro. Andava spesso a giornata quando si mieteva il grano e in autunno a raccogliere le olive. Oltre a questo si prestava ad accudire qualche anziana sola benestante o a sbrigare servizi a volte per una famiglia in difficoltà, a volte per qualche vedovo che aveva bisogno di una donna che lo pulisse o assistesse nei lavori di casa. Ora che i suoi figli erano grandi e alcuni di loro si buscavano il pane, si era un po’ alleggerita dal peso della famiglia, ma lo stesso la vita era piena di sacrifici e rinunce.
 - Giovannino vieni dentro, intanto ti preparo una fetta di pane coi fagioli, scommetto che non hai ancora mangiato nulla!
- No, zia. - rispose il piccolo.
La donna prese dalla madia una pagnotta di pane e ne tagliò una fetta, poi vi spalmò sopra un mestolo di fagioli che aveva cucinato la sera prima. ti piccolo l’afferrò con avidità e iniziò a mangiare; poi disse con la bocca piena:
- Grazie, è buono!
Vincenzo era rimasto davanti alla porta in attesa di salutare la zia per poi recarsi dalla nonna Antonietta, Filomena uscì fuori e disse al bambino:
- Vuoi un po’ di pane anche tu?
Il bimbo fece cenno di no con la testa e disse:
- Devo correre dalla nonna e avvertirla, tante grazie!
Vicolo di Maenza dove è nata Colomba.
Padre di Colomba
Vincenzo si mise a correre come chi sa di avere perso troppo tempo e deve recuperarlo. Con la sicurezza di chi conosce la strada si inoltrò nelle stradine della zona vecchia del paese. Finalmente arrivò in una piazzuola chiusa da casupole fatte di pietra. Davanti a queste c’erano dei ballatoi, ove generalmente sedevano le donne a fare la calza o pulire le verdure.
Il bimbo salì la scaletta e si trovò dentro la casa formata di una sola stanza, però molto più buia e maleodorante della sua, perché la nonna sotto il tavolato che faceva da pavimento, ci teneva alcune capre e l’asinello.
Nonna Antonietta stava davanti al camino, ancora spento e rattoppava del logoro vestiario. Come vide si alzò e gli andò incontro e gli chiese:
- Vincenzo, come mai sei qui a quest’ora?
Lui rispose:
- Nonna, mamma ha le doglie, dice di andare subito, prima che arrivi la levatrice.
È già l’ora? - chiese.
Subito capì di aver fatto una domanda stupida. Il bambino scrollò le spalle come per dire:
- Che ne so!
- Va bene vengo subito, tu nel frattempo dove andrai? Non vorrai tornare a casa? Queste sono cose di donne e i bambini non possono assistere!
Vincenzo un po’ titubante rispose:
- Andrò da Giovannino che è in casa di zia Filomena.
Intanto Sora Rosa era arrivata da Maria. Con il suo fare forte e autoritario, fece stendere la partoriente, la quale urlava per i forti dolori, sopra il tavolo da cucina e iniziò a visitarla.
L’acqua dentro la grossa pentola di rame bolliva. Francesco preparava grandi pezze di tela che dovevano servire per pulire la puerpera e il neonato. Contemporaneamente giunse nonna Antonietta, che ormai impratichita dalle diverse nascite, si diede subito da fare per aiutare la levatrice. Alle otto di mattina del 28 settembre 1905 a Maenza in provincia di Latina era nata Colomba.
La storia di Colomba non è frutto della fantasia dell’autrice ma pura realtà, vissuta dalla protagonista. Benché personaggi ed eventi facciano riferimento ai primi del novecento, la vita raccontata è molto dura e fa pensare più al Medio Evo. La situazione era simile in quasi tutti i paesi d’Italia.
La guerra porta disagi, paura, ma quello che vivevano i contadini a quei tempi era pura lotta per sopravvivere.
Si racconta anche della “Spagnola”, un flagello che colpì tutti anche adolescenti e bambini. Per non parlare di altre malattie, e delle cure inesistenti o “fai da te”.
Sono evidenziati durezza della gente, le liti per un pezzo di terra e parenti che si accapigliavano continuamente. Ma non tutto era negativo, a volte c’era anche la solidarietà, le feste e, in particolare, l’aiutarsi a vicenda.
Eppure il paese di Colomba non era nel terzo mondo, era a un centinaio di chilometri dalla grande Roma.
L’autrice ha inserito nel testo tante foto come testimonianza del luogo ma anche ricordi di famiglia e di personaggi che vissero allora.

 

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