In mezzo ad un paesaggio di grano, nuvole e terre scure vivevano da un tempo che sembrava a loro infinito e fermo, Mariacatena e Salvatore.
Vecchi sposi bambini a cui il destino non aveva voluto dare figli, ma rispetto reciproco, affetto e persino allegria.
Contadino lui, ma contadino agiato e piccolo proprietario.
Impiegata alle Poste lei. A Calascibetta, cresta di collina e case, tetti e stradine in salita.
Finché un giorno, dopo un incontro d’amore e di corpi di quelli rari, esplosivi e stupiti, nel pieno di un grosso temporale estivo, Mariacatena era rimasta incinta.
Santa Elisabetta!le dicevano dietro le vecchie parenti, mezze scandalizzate e mezze felici. Perché Mariacatena era una brava ragazza. Una vecchia brava ragazza e Salvatore, da quando quel bambino si era annunciato, non sembrava più toccare terra con i piedi mentre se ne andava per le trazzere, da un podere all’altro, a sorvegliare.
Per farlo nascere, siamo nel 1953, mica nel medioevo, niente casa e levatrice, ma l’Ospedale di Enna, Reparto Ostetricia e Ginecologia del Professor Mancuso.
Così, quando il bambino era nato, una ventosa mattina di marzo, con parto naturale e senza troppo scantoe dolore per la madre, sano, lanuine rossa sul capo, due chili e otto di peso… nessuna delle parenti aveva fatto caso che u picciriddu aveva una piccola malformazione, un sesto dito piccolino, nella mano sinistra, accanto al mignolo.
I medici, con i genitori già rapiti d’amore, avevano parlato di un intervento di poco conto da fare un po’ più tardi… quando le ossa si fossero stabilizzate nella mano, ma Mariacatena e Salvatore si sarebbero portati a casa con la stessa estatica felicità anche un piccolo minotauro e il ditino era restato sulla mano di Ruggero.
Ruggero: così avevano deciso di chiamarlo dopo un lungo e pacato parlare al tavolo di cucina, loro due da soli, quando gli altri parenti, amici e dipendenti, venuti in visita e a curiosare, se ne erano finalmente andati via, tutti.
Ruggero piccolino è seduto davanti a casa su uno sgabello basso, di legno.
Con la coda dell’occhio segue la Ziamena che va avanti e indietro occupata a stendere sul filo la montagna di panni lavati e strizzati che stanno nella conca grande di zinco.
Attraverso l’aria della mattina che già si è fatta calda arrivano fino a lui folate di odore buono, fresco e umido, ogni volta che lenzuoli, asciugamani e camicie vengono scutuliatidalle grosse braccia scure della zia per levare le grinze, prima di venire appesi.
Ruggero è di buon umore. Ha appena finito di bere il latte con i biscotti.
Gli piace stare lì fuori seduto sul suo panchettino nuovo.
Senza nessuno che gli parli. Solo a guardare.
L’aria trema sopra le erbe secche ai bordi dello spiazzo e il cielo ha il colore pallido dei fiori del lino. Sembra acqua smossa dal vento. Lo stesso vento che dondola piano le foglie del gelso sopra la sua testa e ogni tanto fa cadere una bacca nera e matura che si spiaccica per terra.
Una lunga fila di formiche sfila davanti ai piedi di Ruggero già scuri di sole, dentro i sandalini di pezza.
Lui le guarda, le mette a fuoco, un pezzetto per volta: le teste grosse più scure, con le mandibole aperte o strette a trascinare un filo d’erba o un piccolo seme, le antenne che non si fermano mai, l’addome lucido, le zampine veloci. Le trova meravigliose.
Con un piede scompiglia adagio la fila: scoppia il caos. Il ritmo cambia, tutte agitate cercano freneticamente di ritrovare il loro posto e ricomporre la fila: un messaggio di allarme si propaga avanti e indietro, da tutte le parti.
Ruggero è affascinato. Scende dal panchetto, le tocca piano con un dito.
Cinque o sei formiche gli si arrampicano subito su per la manina.
Solletico. Lui ride e si scrolla.
Una è finita sul panchetto. Ruggero ci appoggia un dito sopra per fermarla, schiaccia. Alza il dito: solo un grumetto nero immobile e scomposto.
La spinge adagio per farla camminare, niente.
La formica non esiste più.
Ruggero si blocca. Chiude gli occhi e piange sconsolato senza fare rumore. Lacrime grosse e lente bagnano il davanti della maglietta a righe e il sole si è fatto nero.
Ziamena, che ha finito di stendere, risciacqua la conca nel lavandino grande accanto al muro della casa e non si accorge di niente.
Inverno.Uno di quelli rari in Sicilia, cupi e freddi, che non finiscono mai.
Da settimane nuvole e nuvole, nere e pesanti, si trascinavano su dalla parte del mare per scaricarsi su paesi e campagne in fitte tende di pioggia grigia.
I camini delle case fumavano di giorno e di notte e nell’aria si sentiva odore di legna bruciata e di umido..
Poca gente per le strade, tutti chiusi da qualche parte ad aspettare che passi.
Il padre puparo arrivò per primo. Da solo.
Alto e scuro, un po’ curvo, i vestiti da città lisi e stazzonati, una sciarpa di lana girata intorno al collo e un cappello nero dall’ala piegata in avanti.
Scese in paese dalla corriera che veniva da Enna, di mattina.
Fece i suoi passi. Trovò un magazzino grande, asciutto e vuoto ad un prezzo onesto. Salì in comune e poi parlò con i carabinieri.
Prese alloggio nella stanza sopra l’osteria.
Pochi giorni dopo, da giù, arrivò un grosso camion con tutta la famiglia e il materiale.
Scaricarono la roba nel magazzino e lì, insieme, si misero a trafficare, a dormire, cucinare: padre e madre, la figlia più grande, che era una vera bellezza bruna e i tre maschi in scaletta. E lo zio giovane, fratello del padre. Arrangiati dietro a tramezzi fatti di coperte appese.
Con grandi colpi di martello e raschio di seghe, mettevano su il teatrino e tutta l’attrezzeria per gli spettacoli e le panche per la gente.
Sui muri delle case stillanti pioggia, comparvero presto manifesti piccoli e colorati: La grande Opera dei pupi di Palermo avrebbe rappresentato lì, per tutto il mese di febbraio, le mirabolanti storie dei Paladini di Carlomagno e dei mori.
Ruggero ancora piccolino non sapeva niente né di paladini né di mori, ma fu ben contento quando madre e padre, una domenica pomeriggio che aveva smesso di piovere, si caricarono con lui sulla seicento e partirono verso il paese per andare a vedere il teatro dei pupi.
La macchina, usata, Mariacatena se l’era comprata da poco, per fare più presto all’uscita dal lavoro, finito l’orario, alle due, che con la corriera ci metteva una vita e lei aveva presciadi tornare da Ruggero e di non lasciarlo troppo solo con la Ziamena, la quale fidata lo era, certo, come un gendarme e innamorata del bambino, ma troppo selvatica e piena di strane credenze antiche, che si ostinava a parlargli, al bambino, in un dialetto montanaro e scaglioso che sembrava di fatto l’unica lingua che Ruggero fosse disposto ad imparare.
E sì che lei -e anche Salvatore, poveretto- si erano imposti di parlargli sempre in italiano: insomma, il bambino non doveva crescere come uno zotico…perché un po’ stravagante la Ziamena -che era una zia giovane di Salvatore da parte di padre- lo era sempre stata: una ragazzona grossa, scura e pelosa che non aveva mai voluto saperne di prendere marito e si era adattata a vivere a casa di un parente o dell’altro e fare la serva finché non era nato Ruggero.
Mariacatena si era tormentata a lungo, finito il breve congedo di maternità, ragionando da sola e con Salvatore, se ritornare a lavorare o lasciare l’impiego alla posta. Le si spezzava il cuore a staccarsi da quel bimbetto sacro che le era stato mandato tardi e che aveva cambiato da un giorno all’altro la sua vita.
Ma alla fine Mariacatena aveva deciso di tenerselo quel lavoro.
Mezza giornata, del resto, e non troppa fatica che anzi stare alla posta le piaceva e, forse per la sua storia un po’ speciale, non si era mai potuta immaginare solo come donna di casa.
Con l’intuito buono che la sorreggeva sempre nelle decisioni importanti della vita, aveva sentito che lasciando il lavoro avrebbe perso quella specie di autorevolezza nei rapporti con Salvatore e con la famiglia di lui, la rispettabilità indiscussa che aveva bilanciato, all’inizio e poi nel corso della loro vita in comune, la sua origine incerta, la sua infanzia di bambina allevata dalle suore per la carità di qualche parente ricco e lontano.
Le suore del collegio di Enna l’avevano tirata su come l’allieva prediletta, il loro gioiello, additata alle altre educande come esempio, perché Mariacatena si era dimostrata sempre bambina equilibrata e intelligente, capace di slanci affettuosi e di spandere intorno a sé serenità e buon umore.
Mentre lontano la storia ribolliva e il mondo intero preparava la guerra, nulla o quasi filtrava attraverso gli spessi muri del convento. Mariacatena studiava, studiava, leggeva tutti i libri delle biblioteche scolastiche su cui riusciva a mettere mano e guardava alla vita affacciata da quel osservatorio speciale.
Per una strana alchimia di incontri fortunati e circostanze, non si era mai lasciata catturare da nessun obbligo di appartenenza o fedeltà, né alla famiglia troppo lontana, né al collegio delle suore, se mai alla scuola.
In questo modo aveva continuato a dimostrare quella specie di distacco benevolo che la rendeva così cara a chi le stava accanto.
Persino i lacci stretti della religione che le suore avevano provato a avvolgerle intorno non erano arrivati mai a segnarla davvero.
In questo modo aveva fatto ragioneria, una delle poche femmine iscritte a quei tempi, con i migliori risultati e all’uscita da scuola, ancora minorenne, le suore lungimiranti avevano rinunciato di buon grado a tenersela al convento e le avevano trovato quell’impiego ambito all’Ufficio delle Poste di Calascibetta, non troppo lontano dal convento, e una stanza dove abitare nel paese, da una brava vedova devota e agiata che l’aveva trattata subito come una figlia, in quei tempi difficili di guerra.
Proprio alla posta Mariacatena aveva conosciuto Salvatore e si era dovuta accorgere, ingenua com’era e del tutto inconsapevole della grazia riservata e fresca che emanava dalla sua persona, che quel contadino padrone, scuro e tarchiato, dagli occhi intelligenti e buoni, un po’ più grande di lei e abbastanza rozzo, veniva alla posta troppo spesso, per motivi da niente e aspettava paziente al suo sportello, in fila.
Si erano sposati nell’ottobre del ‘43, un po’ straniti e frastornati dopo la vampa che era passata sulla Sicilia quell’estate: le notizie drammatiche dei bombardamenti di Palermo, gli sfollati in fuga e tutto in giro spari e spaventi, confusione e l’arrivo improvviso degli americani subito dopo la partenza in fuga affannosa dei tedeschi… chi lo avrebbe mai detto?
La seicento si arrampica gagliarda su per le rampe che portano al paese, come il nibbio che sfrutta le correnti dell’aria, lasciandosi in basso nella piana i campi intrisi di pioggia.
Salvatore va a posteggiare la macchina.
Ruggero, nel suo cappottino scozzese della festa, berretto di lana in testa e la manina calda nella mano grande di sua madre, si avvia verso il teatrino con un misto di eccitazione e di timore.
È fatto così: selvatico e sensibile. Ogni evento nuovo lo attira e lo respinge. Fiuta il rischio di essere ferito da ogni cosa.
Ormai ha imparato che né il padre, né la sua stessa mamma sono capaci di proteggerlo da questa ombra nera che sembra abitare il mondo e nascondersi in ogni angolo, pronta a saltargli addosso.
E ormai sa bene che suo padre si arrabbia e grida se lui si spaventa e si dispera, come l’ultima volta, quando…