Fiammetta Tonelli Mirna Micheli
Gnònca la guèra la môngia la tèra

Titolo Gnònca la guèra la môngia la tèra
Succisa il paese delle nostre radici
Autore Fiammetta Tonelli Mirna Micheli
Genere Storia e tradizione locale      
Pubblicata il 01/08/2021
Visite 703
Editore Liberodiscrivere® edizioni
Collana Koine´  N.  43
ISBN 9788893392624
Pagine 96
Prezzo Libro 12,00 € PayPal

Versione Ebook

ISBN EBook 9788893392631
Questa raccolta di tradizioni, proverbi, filastrocche e detti popolari è nata per lasciare una traccia di quel che era il nostro paese, per far sì che il ricordo non si disperda e rimanga alle nuove generazioni, consapevoli che se non lo facciamo ora questo patrimonio andrà perduto in quanto una gran parte proviene da ricordi e da racconti tramandati verbalmente dai paesani più anziani. Succisa Pontremoli
“Dona a chi ami ali per volare, radici per tornare e motivi per restare”
Dalai Lama
Con la consapevolezza che la conoscenza della storia della cultura delle tradizioni della propria terra sono le radici e le conoscenze tecniche e scientifiche sono le ali, è bene dare ai nostri ragazzi radici forti, costruite con amore, senso di appartenenza ad una famiglia, ad una terra, a una cultura, e un paio d’ali fatte di conoscenza, di sogni, di emozioni e di libertà per farli volare nel mondo. Le radici saranno la loro sicurezza e il motivo per cui avranno il desiderio di tornare ogni volta che lo desiderano.
Questa raccolta di tradizioni, proverbi, filastrocche e detti popolari è nata per lasciare una traccia di quel che era il nostro paese, per far sì che il ricordo non si disperda e rimanga alle nuove generazioni, consapevoli che se non lo facciamo ora questo patrimonio andrà perduto in quanto una gran parte proviene da ricordi e da racconti tramandati verbalmente dai paesani più anziani.
Nel contenuto è possibile che ci siano anche particolari frutto di fantasia, ma del nostro passato che conosciamo solo per sentito dire è bene che nulla si perda; questa raccolta non ha nessuna pretesa storica o letteraria ma vuole riportare semplicemente e, ci auguriamo simpaticamente, una parte del nostro passato e del nostro dialetto.
Il dialetto fino a una cinquantina di anni fa era parlato da tutti giovani e anziani poi gradualmente è caduto in disuso, pensavano che ai bambini si doveva parlare in italiano altrimenti avrebbero avuto difficoltà a scuola; ora sono pochi i giovani che conoscono il dialetto ed è un vero peccato perché si sta perdendo un patrimonio linguistico e socio culturale proprio delle persone che vivono in quel luogo. Anche il dialetto rappresenta le nostre radici. Una parola o una frase espressa in dialetto a volte ha un significato tutto particolare e riesce a rendere l’idea immediatamente con un’espressività genuina. Si dovrebbe favorire questo passaggio linguistico/culturale attraverso le singole persone, la scuola, le istituzioni, gli enti locali prima che, come già detto sopra, vada perduto.
Va ricordato che il dialetto di Succisa si differenzia tra le frazioni, soprattutto tra la Villavecchia e la Pollina con l’utilizzo della lettera g o della lettera z, esempio: nel primo caso si dice “andòma giü” nel secondo “andòma zü”; in questo testo si è scelto di utilizzare quello conosciuto meglio dalle curatrici del libro.
Succisa è un piccolo paese situato a sette chilometri dal capoluogo Pontremoli, sul fianco meridionale del monte Molinatico; il territorio si estende per circa trenta chilometri quadrati e la popolazione è sparsa in cinque frazioni: Colla, Villa Vecchia, Barca, Pollina, Poderi.
Si trova sul fianco destro del fiume Magriola e di faccia alla strada della Cisa che percorre il fianco opposto della valle.
Descrizione del paese e dei paesani da parte di don Quinto Barbieri, parroco del paese dal 1931 al 1951, al suo insediamento nella parrocchia di Succisa:
La topografia della parrocchia mi piacque e così l’altimetria di 585 metri, non mi sembrò esageratamente scomoda, piuttosto si sentiva la necessità della continuazione del tronco stradale con Pontremoli, di una corriera, di fontane pubbliche, di botteghe meglio rifornite, di maggior assistenza medica, di miglior funzionamento della cassetta postale, di un telefono...
Il paese andava evolvendosi: diminuiva l’uso della secchia di legno, del fuoco sul pavimento della cucina, delle lume ad olio e dei lumi a petrolio. Non dimenticherò mai una cucina con due fuochi in terra di due diversi proprietari orgogliosi del loro sistema e pienamente concordi tra di loro.”
Le famiglie Marzocchi e Tonelli che abitavano alla Villavecchia a “Cà ad Batistu” dividevano lo spazio della cucina con due “scrane” una di spalla all’altra, in ciascuna parte si accendeva il fuoco per terra e spesso il luogo era punto di ritrovo per le veglie di tanti paesani.
Illustrazione 1: Scrana.
La popolazione di carattere piuttosto chiuso in una frazione, impetuoso in un’altra, indifferente in una terza, misto altrove,[1] non la trovai contraria piuttosto ambiziosa ed esigente; è cortese festevole, evoluta, affettuosa, religiosa, incline al guadagno ed alla larghezza per non dire allo sperpero, preferisce il commercio agli studi ed al lavoro nei campi. Sono ingegnosi, focosi e di una nativa fierezza tanto che a parole non intendono soggiacere davanti a nessuno, ribellandosi sempre ai mezzi coercitivi. Sentono e amano fortemente la parrocchialità, contribuiscono nelle varie sottoscrizioni ed in generose offerte private pur essendo per necessità di commercio una popolazione quasi nomade. Alcuni passano a casa pochi mesi all’anno altri pochi giorni della settimana, conoscono tutte le città d’Italia, tutte le combinazioni ferroviarie. Si danno al commercio le persone di ambo i sessi e di tutte le età, la disoccupazione è ricordata come inconveniente secondario.
Tra le città frequentate per il commercio va ricordata in particolare Roma dove centinaia di famiglie di succisani hanno trovato dimora integrandosi nella comunità romana; venivano descritti come gente tenace, seria, generosa e unita in un affiatato nucleo, ‘ottimi romani senza tradire Succisa’.
Nel 1973 l’Onorevole Gasparino Caputo, su richiesta del Sindaco di Roma, ha consegnato al Sindaco di Pontremoli Adamo Bianchi una medaglia del Campidoglio in riconoscimento dell’operosità dignitosa e ammirevole dei succisani a Roma, dove hanno dato dimostrazione di alto senso civico e comunitario”.
(Tratto da un articolo del giornale Corriere Apuano di quel periodo e citato nel libro “Andar lontano, partenze da Succisa alla ricerca di fortuna” di Debora Antiga).
Chiesa parrocchiale:
“Succisa fu eretta in parrocchia oltre tre secoli fa, coll’aiuto del Granduca di Toscana, staccandosi dalla pieve di Vignola, nel 1899 dal titolo di Rettoria divenne Arcipretura per l’importanza acquisita e per essere il paese di origine di Santa Zita.”
Dal 1813 la Colla divenne la nuova sede della Chiesa Parrocchiale essendo il centro topografico del territorio; e un po’ di anni dopo nel 1867 sulla strada della Pollina sorse il Camposanto, fu così abbandonato il vecchio Cimitero e la piccola chiesa di Villavecchia che divennero, insieme all’antica canonica, la casa colonica e i terreni, del mezzadro del parroco.
Al vecchio e al nuovo cimitero ci si recava in processione d’estate per ottenere la pioggia e a novembre per la festa dei defunti.
Illustrazione 2: Il vecchio campanile.
Illustrazione 3: La vecchia Chiesa e la canonica. Una prima costruzione della Chiesa di Succisa risale al 1077.
“La pulizia della chiesa e degli altari era tenuta a turno dalle giovani di tutta la Parrocchia, ho regolato meglio il servizio fissando la prima domenica del mese per le giovani della frazione Villavecchia, la seconda per quelle della barca, la terza Poderi, quarta Pollina, quinta e feste fra la settimana per le giovani della Colla. Ogni gruppo ha un altare fisso da curare e ornare con soli fiori freschi naturali oltre al lavare e rammendare gratuitamente per la parte che gli spetta la biancheria della Chiesa.”
Come riportato sopra ogni frazione aveva un altare assegnato, la Colla Il Sacro Cuore, i Poderi S. Antonio, la Villavecchia e Barca S. Zita e la Pollina l’altare della Madonna, gli altari venivano tenuti con cura e non mancavano mai i fiori freschi. Le giovani del paese piantavano fiori nei loro orti in modo da averne sempre a disposizione per adornare la chiesa.
“Mi compilai un pro-memoria sugli incerti e spese parrocchiali che servì a me stesso più volte come base nelle continue variazioni di valore monetario. La parrocchia ha infatti parecchi incerti, occorre saperli conservare ed aggiornare secondo i tempi e le necessità (per esempio la ricompensa che deve avere il parroco per ogni chilometro fuori dei confini della parrocchia nei trasporti funebri). Lo scrivente ha dovuto vivere per diversi anni quasi esclusivamente sugli incerti senza alcun reddito dal podere.
Certamente non è più contata nel detto pro-memoria la formaggetta, andata in disuso, che i promessi sposi portavano al parroco in occasione del consenso matrimoniale, perché i tempi sono cambiati, ma fu sostituita dalla multa affibbiata agli sposi novelli in ritardo nell’entrare in Chiesa per celebrare il loro matrimonio oltre il suono delle ore 11, da versare a favore del celebrante in proporzione dei minuti di ritardo.
Queste imminenti spose non erano mai puntuali; quando la prima volta minacciai tale multa, feci ridere, mentre ora è riconosciuta giustissima e la pagano tutti i mancanti, senza condono a nessuno. Quando in parrocchia si vuole rimproverare qualche giovane di lentezza, viene ripresa colle parole: ‘Quando ti sposerai pagherai la multa’. Ero contento quando potevo far aumentare gli introiti non solo per la Chiesa ma anche per gli aiutanti, il campanaro, il fossore, i sacerdoti viciniori, che si prestavano nei servizi.”
Gli incerti citati da don Quinto sono le offerte per i servizi, i cosiddetti “ex incerti di stola”, offerte dalle famiglie in occasione di battesimi, matrimoni, funerali, della benedizione delle famiglie o di altri sacramenti.
A proposito di matrimoni si ricorda una tradizione particolare del nostro paese, l’uso di fare la “trabàcla” (un bastone ricoperto di fiori e foglie) che veniva posizionata come ostacolo sulla strada degli sposi, questi dovevano pagare pegno per passare e i bambini aspettavano con il cestino in mano il dono dei dolci confetti. Una volta ricevuto l’omaggio tutti battevano le mani agli sposi che potevano proseguire il il loro cammino.
“A Succisa le campane sono la vera gloria della Parrocchia, ma non bastano le campane, ci vogliono i campanari che sappiano suonarle tutte cinque contemporaneamente, disposti a sacrificarsi tutto l’anno per una minima retribuzione, ciò che non è facile. Il campanone è dedicato a S. Zita ed ha del misterioso perché in seguito a rottura fu rifuso nel 1898; cadde il 6 gennaio 1923 sul pianerottolo del campanile affollato di persone, mentre era slanciato per il suono a distesa, senza la minima disgrazia per le persone”.
Le campane del nostro campanile sono 5 ed ognuna è dedicata ad un santo, il campanone a santa Zita, la più piccola a San Antonio Abate, le altre rispettivamente alla Vergine Maria, Santa Felicita e Santa Perpetua.
(Ripreso dal libro: “Succisa Notizie utili per la storia” di Gino Monacchia.)
Il suono delle campane arrivava su tutto il territorio della parrocchia ed era il segnale, insieme alla posizione del sole, che dava alle genti delle nostre campagne la cognizione dell’ora quando lavoravano nei campi e nei boschi lontano dall’abitazione.
La vita quotidiana dei paesani era regolata dal levare del sole e dal calare della sera, le campane della chiesa aprivano e chiudevano la giornata con i loro rintocchi all’alba, a mezzogiorno e al tramonto, in quest’ultimo richiamo suonavano l’Ave Maria ricordando di dire una preghiera e che era l’ora di lasciare il lavoro e incamminarsi verso casa.
Alla domenica suonavano per chiamare i fedeli alla messa, e quando c’era una festa o un’importante celebrazione religiosa suonavano a distesa rallegrando gli animi.
Fra le altre funzioni c’era il suono a martello che segnalava un pericolo imminente dovuto a calamità, incendio, crollo, frane, questo era un segnale che richiamava anche il parroco alla chiesa per le emergenze.
Durante i forti temporali veniva suonato il campanone per allontanare la tempesta, si credeva che le onde sonore avrebbero rotto l’aria, smorzando il temporale; mentre le campane suonavano nelle case si accendevano le candele benedette della candelora e si metteva fuori l’ulivo benedetto.
I lutti[2] erano segnalati mediante rintocchi distanziati tra loro e poi terminavano con rintocchi accelerati che indicavano anche se il morto era un uomo o una donna. Se era un uomo erano tre rintocchi ravvicinati se era donna solo due. I nostri nonni conoscevano bene i diversi suoni e il loro significato, ma oggi stanno perdendo l’importanza di un tempo e probabilmente saranno dimenticati dalle nuove generazioni.

[1] Lasciamo al lettore l’interpretazione della descrizione del carattere delle persone e a quali frazioni appartenevano.
[2] Quando moriva una persona in famiglia si portava un lutto molto stretto che a seconda della parentela andava dai sei mesi a un anno (esempio: per un genitore un anno in abbigliamento nero più un anno in bianco e nero)
Questa raccolta di tradizioni, proverbi, filastrocche e detti popolari è nata per lasciare una traccia di quel che era il nostro paese, per far sì che il ricordo non si disperda e rimanga alle nuove generazioni, consapevoli che se non lo facciamo ora questo patrimonio andrà perduto in quanto una gran parte proviene da ricordi e da racconti tramandati verbalmente dai paesani più anziani. Succisa Pontremoli

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