Louis Daishin Besio
Penso quindi non sono

Titolo Penso quindi non sono
Il Manifesto di un visionario Zen
Autore Louis Daishin Besio
Genere Saggistica      
Pubblicata il 21/10/2022
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Editore Liberodiscrivere®
Collana L’approfondimento  N.  29
ISBN 9788893393010
Pagine 256
Prezzo Libro 18,00 € PayPal

Versione Ebook

ISBN EBook 9788893393027
Uno sguardo lucido e disincantato sul mondo dello Zen, sulle sue tradizioni e sulla sua pratica, in grado di separare il mito dal reale e capace di riconnetterlo all’Insegnamento originale del Buddha Shakyamuni delineando così una visione unitamente antica ed attuale.
Una stesura di idee innovative, semplice e diretta, scomoda e critica, basata su un’osservazione logica che unisce la disarmante razionalità di Krishnamurti con la pratica della meditazione, ribadendo il diritto di dignità scientifica alla ricerca interiore.
È un libro dedicato non solo ai praticanti Zen, ai ricercatori buddhisti, ai seguaci di Krishnamurti, ma anche a tutti coloro che amano il confronto sincero, aperto, diretto, in cui l’innocenza abbia ancora un valore profondo.

Premessa

Non amo particolarmente le presentazioni, ma mi sentivo in dovere di predisporre due righe nel tentativo di introdurre il lettore alla scoperta di questo testo decisamente difficile da catalogare.

Ho scritto questo libro conscio che potrebbe essere considerato come uno dei tanti volumi sullo Zen, e, se così davvero lo avessi concepito, avrei di certo potuto evitarmi la fatica. Gli stimoli per affrontare un lavoro inusuale, però, mi si sono evidenziati in questi ultimi anni, notando quanto si stia perdendo il senso critico costruttivo nella valutazione di svariati argomenti, tra cui quello della ricerca spirituale.

Per quanto tale ricerca possa essere considerata da qualcuno come pura astrazione e, quindi, refrattaria ad ogni approccio logico e critico, il mio punto di vista è in dissenso con tale opinione, ritengo perciò non solo possibile, ma persino necessario illuminare il cammino, almeno fino ad un certo punto, con un sano ed equilibrato atteggiamento razionale. Infatti, la probabilità di incontrare dei paradossi inesplicabili sulla Via della ricerca non implica la necessità di rinunciare ad un vaglio razionale.

Questo metodo razionale fu da me scoperto più di 40 anni fa attraverso una serie di letture folgoranti, proprio perché l’autore di quei testi proponeva un linguaggio critico, e basato sulla logica, a riguardo delle Vie religiose, pur mantenendosi egli stesso all’interno di un percorso indirizzato alla scoperta della Verità. Quell’autore si chiamava Jiddu Krishnamurti ed il suo criterio inusuale mi fu da allora costantemente guida per tutto il personale viaggio interiore.

La razionalità introdotta da Krishnamurti nelle sue analisi segnava un punto di riferimento imprescindibile, pensavo allora, per quanti, da quel momento, avessero voluto intraprendere un serio percorso di ricerca spirituale. Al contrario, oggi, dopo 45 anni da quelle letture, constato che il senso valutativo comune, apprezzato allora anche a livello scolastico, ha lasciato il posto a meccanismi di pensiero uniformati ed anche, peggio, ai più ciechi fideismi.

Le religioni teiste, ovviamente, si basano su fedi alle quali non è indispensabile un sostegno razionale, ma quelle Vie consacrate alla ricerca interiore dovrebbero giovarsi della luce della ragione. In particolare la Dottrina del Beato, quel Buddhismo di cui lo Zen è legittimo figlio, è una Via iniziatica alla ricerca della Verità a cui il Buddha stesso, già 2500 anni fa, aveva dato un fondamento razionale. Eppure, attualmente, persino fra i seguaci del Buddhismo sembra dominare una certa piattezza ed un discutibile conformismo.

Si riscontra, inoltre, un inquietante incremento di quelle dottrine riferite al Buddhismo ma puramente basate sulla fede cieca, e reputo ciò inquietante perché, in un mondo che ruota sulla continua indagine e condivisione scientifica, a cui si può accedere con un banale tocco sui nostri raffinati smartphone, il principale traino verso il Buddhismo dovrebbe essere rappresentato proprio dalla grandezza del pensiero razionale del Buddha storico, e non dalla fede in un qualche Buddha divino o in qualche formula dai poteri magici. La Storia, mi sembra, non è stata avara di figure ultraterrene, e se in Oriente la necessità consolatoria di un grande numero di persone si è affidata alla recitazione di litanie, alla messa in atto di riti propiziatori ed alla venerazione di una qualche figura di Buddha divino, in tutta sincerità non colgo proprio la necessità di importare qui tali metodologie irrazionali, essendo noi occidentali già abbondantemente in possesso di quelle legate alla nostra tradizione culturale.

Qui in Occidente, infatti, è motivo di grande gioia vedere come la scienza si stia occupando del Buddhismo del Buddha storico mettendone in risalto le doti di modernità, ma lascia piuttosto perplessi il constatare un ritardo di risposta a questo approccio, escludendo alcune rare eccezioni, non solo da parte di chi ricerca una Via spirituale, ma anche da parte di chi è più coinvolto nella protezione e divulgazione del Buddhadharma. Così come poco si comprende la mancanza di uno sviluppo occidentale originale, e perché no, più al passo con la moderna scienza, della Dottrina, ingessata a ricalcare pedissequamente le tradizioni orientali.

Il Buddha definiva il Suo insegnamento “controcorrente”: negava la divisione in caste, negava l’asservimento femminile, negava l’importanza di un Dio e negava l’Anima nel pieno fiorire di una società basata proprio su questi principi e, quindi, negava il potere culturale dominante.

Mi sfugge come non si noti quanto questo modo di vedere Dio e l’Anima sia tuttora controcorrente nelle moderne civiltà, dove la contrapposizione anche violenta proprio su questi temi è all’ordine del giorno.

Pensiamo anche alla connotazione controcorrente data nella Dottrina del Buddha all’esistere, con il suo retaggio di sofferenza e confusione, in un mondo dove l’esistenza individuale viene appiattita in canoni di comoda ma alienante superficialità invece di cercare di affrontarne lucidamente le difficoltà intrinseche. Pensiamo alle implicazioni sulla fallacità dell’ego e dei sensi, portatori nelle nostre menti di informazioni difettose, in una cultura globale dove all’ottusa dominanza dell’avere si è aggiunta quella dell’apparire. O, ancora, della ricerca continua di consapevolezza e presenza mentale, in una società dove i modelli sociali imposti richiedono solo l’apatia meccanica di conformarsi ed imitare. Basterebbe decodificare le pubblicità propinateci ogni giorno o la maggioranza dei programmi d’intrattenimento per avere conferma dell’attuale stato delle cose.

La struttura culturale del pianeta è oggi diseducativa ed ignorante: pone l’accento sulla libertà senza dare alcun interesse alla disciplina, sceglie la menzogna se la verità è scomoda (e lo è quasi sempre), predilige la confusione e lo sbraitare insistente al ragionamento analitico. L’Insegnamento buddhista è profondamente educativo e sapiente: pone l’accento sulla disciplina come porta d’accesso alla libertà, ritiene la verità il bene supremo da perseguire inesorabilmente, si propone attraverso l’analisi ragionata e la quiete dello spirito consapevole.

Sì. È esattamente così. Il Buddha non si conformò mai alla cultura imperante, e riuscì a mantenere con questa un perfetto equilibrio solo perché disinteressato alla ricchezza ed al potere e perché evitò di indicare la Sua Dottrina come unica porta di acceso alla Verità, negando il proselitismo e chiedendo, a chi gli si avvicinava, di vagliare criticamente il Suo Insegnamento prima di adottarlo.

Fu un grande esempio di pace, disponibilità, povertà, distacco mondano, non certo di conformismo.

Alcuni secoli dopo di Lui, inoltre, il Buddhismo Mahayana non avrebbe mai avuto alcun sviluppo se l’anticonformismo di antichi monaci non li avesse portati a discutere i lasciti dottrinali, sviluppando metodologie ed elaborando concetti anche più originali di quelli al Buddha ascritti, come lo Zen dimostra bene.

Nel tentativo, quindi, di offrire un punto di vista inusuale, più prossimo alla scienza che al mito e libero da preconcetti, nella prima serie di capitoli ho mescolato momenti di vita con osservazioni controcorrente sullo Zen, il tutto umilmente proposto come stimolo all’approfondimento di alcune tematiche fondamentali ed al superamento degli schematismi.

Nella seconda serie ho presentato, sempre legandoli all’esperienza diretta, alcuni aspetti della Via e della sua pratica, allo scopo di sottolineare l’importanza di applicare nel quotidiano l’Insegnamento del Buddha.

La terza ed ultima parte, poi, si concede un approccio più emotivo, dove le mie esperienze alla luce della Via abbandonano per un poco la dimensione analitica e si lasciano attraversare dal sentimento.

Si tratta di un’opera pensata, ma incapace di reprimere un taglio emozionale perché scaturita da una sensibilità autentica. E se l’apparenza può far considerare un po’ scollegati fra loro i vari momenti, è solo a fine lettura che si avverte, credo, il senso universale a cui, coerentemente con lo Zen, l’insieme dello scritto addita.

Ruota fondamentalmente attorno a quattro assunti: sincerità, innocenza, religiosità personale e ricerca della Verità, basi del mio approccio allo Zen, e spero trovi la sua collocazione giusta nello spirito di chi non si accontenta di conformarsi, ma si pone, come me, delle domande scomode ma oneste.

Buona lettura.

Louis Daishin Besio

Specifica:

Il trattare argomenti non provenienti dalla nostra cultura implica l’impossibilità di evitare alcune parole in uso nella cultura di provenienza. Ho cercato di eludere un utilizzo indiscriminato di termini esotici, ma mi sono, comunque, premurato di aggiungere a fine libro un breve Glossario a cui si può attingere. Considerato, però, che questi termini possono avere valenze differenti a seconda dell’approccio scolastico o culturale adottato, onde comprenderne la collocazione in questo testo consiglio a tutti i lettori di dare comunque un’occhiata al Glossario.

Inoltre, durante la lettura si troveranno talvolta citazioni da siti web, riferimenti a particolari testi o persone senza che io ne dichiari apertamente le fonti, i titoli od i nomi. È una deliberata scelta atta a preservare lo stimolo a verificare criticamente le mie affermazioni senza farsi condizionare da altri fattori. La domanda giusta da porsi è: date queste premesse, la logica della trattazione regge?

Essendo, comunque, tali riferimenti reali e comprovabili, ed essendo stati da me scelti perché rappresentativi di un certo modo di pensare in ambito Zen, ritengo eventualmente piuttosto facile trovarne riscontro.

La Filosofia nell’attualità

1)CONTRO LO ZEN PER LO ZEN: passeggiando nella ragionevolezza

Sono una persona comune e vivo in mezzo a persone comuni. Non posseggo alcuna dote particolare e, a dire il vero, se mi paragono a certi personaggi svelti di lingua e di pensiero mi appaio piuttosto poco brillante.

Nonostante questa mia carenza di doti io ho avuto una immeritata fortuna: ho incontrato il Dharma, ne ho riconosciuto le istanze rivoluzionarie, ho imparato a vedere la mia comune vita con occhi differenti ed ho trovato, pur con i miei limiti, un cerchio privo di centro, una porta senza porta per l’Assoluto.

Se fossi intellettualmente più brillante potrei farmi prendere dalla smania di esplorare ed approfondire con tenacia ogni elemento filosofico del Buddhadharma e, come hanno fatto i grandi adepti, trovare nei testi buddhisti spunti per dotte riflessioni, ma, se mi avventurassi in territori fuori dalle mie possibilità, non farei del bene alla mia ricerca spirituale.

Ho quindi scelto il coinvolgimento nella semplicità dello Zen non a caso, ma proprio perché si è presentato a me come un insegnamento: “da cuore a cuore, una speciale trasmissione al di fuori delle Scritture, senza alcuna dipendenza dalle parole.”

Lo Zen vanta una lunga Trasmissione del Dharma di maestro in maestro, andando a ritroso fino al giorno in cui il primo di essi ricevette direttamente il riconoscimento non verbale della propria realizzazione spirituale dalle mani del Buddha stesso, nella forma di un fiore.

I miei primi passi nello Zen si sono dunque concretizzati nell’ottica abituale con cui si presenta questa scuola, ma devo confessare di aver covato, fin dall’inizio, una certa irrequietezza nel sottomettermi alle modalità tradizionali. Mi sono quindi deciso, negli anni, ad affrontare un cammino in solitaria nel tentativo di comprendere più a fondo le ragioni del mio turbamento, pur nella determinazione a seguire profondamente la Via, e ciò mi ha fornito uno spazio di libertà intellettuale, utile alla revisione di alcuni concetti dati sempre fideisticamente per scontati.

Quindi, in prima istanza, entrando in argomento e conscio di poter ferire la sensibilità di qualcuno, vorrei onestamente affermare di ritenere le origini dello Zen, come tradizionalmente proposte nell’immagine del passaggio silenzioso del fiore dal Buddha a Mahakasyapa, una pura invenzione. A questa, peraltro, mi adeguo, nel senso di condividerne l’idea esemplificativa di base, ritenendola inoltre un’abile operazione di marketing supportata da un ottimo prodotto.

Sono perciò assai più propenso a pensare alle vere origini dello Zen come ad una sana rottura degli schemi operata da alcuni notevoli monaci, probabilmente della scuola Tientai in Cina. E questo, dal mio punto di vista, non ne sminuisce fascino e merito.

Armato di un pizzico d’ironia, tenterò di mettermi nei loro panni buttando un occhio indiscreto sul passato.

Per prima cosa consideriamo lo stato dei tempi, ci riferiamo ad un periodo intorno ai primi secoli dopo Cristo. All’epoca non c’era internet, non c’erano gli aerei ed i treni e neppure le automobili. Per approfondire o condividere la Dottrina, allora presente soprattutto nel nord dell’India e nell’Asia centrale, si viaggiava sul dorso di qualche animale quando si era fortunati, ma, il più delle volte, ce la si faceva a piedi con uno zaino di bambù sulle spalle. Ed infatti proprio in questo modo andavano e venivano studiosi cinesi e missionari indiani di quelle zone asiatiche, tutti animati dallo scopo di possedere e tramandare l’ampia cultura buddhista racchiusa in numerosissimi volumi.

Questo fermento non fu vano, perché in Cina, nonostante la difficile prassi, si arrivò comunque ad accumulare nei secoli l’intero patrimonio di testi buddhisti indiani, e tali Insegnamenti vennero man mano tradotti, incredibilmente senza modificarne la sostanza, tra lingue diversissime l’una dall’altra, tipo dal sanscrito (lettere di un alfabeto), al cinese (caratteri ideografici). La forza degli antichi divulgatori, per lo più monaci, era assistita da due elementi: il tempo e la pazienza. Bevevano e mangiavano quel che la terra dava, quindi in modo assai più sano che al fast food, si muovevano volenterosi dalla Cina all’India e viceversa, si scambiavano le opere ed erano avidi di tutte le news provenienti dallo scibile buddhista.

Non è difficile comprendere come queste opere, data la rocambolesca metodologia di acquisizione, venissero giudicate preziosissime.

Questi testi, però, non erano le trascrizioni dei video scaricati da YouTube con il Buddha a declamare, ma erano il frutto di pensatori indiani, geniali menti avvezze da tempi immemori alla filosofia dei Veda e delle Upanishad. Oltre al più antico Canone Pali, cioè la prima trascrizione postuma dei discorsi del Beato avvenuta qualche secolo dopo la morte del Buddha e basata sulla memoria dei suoi discepoli, si erano aggiunti nel tempo altri Insegnamenti. Alla stregua dell’epoca d’oro della filosofia greca, nell’India vedica, come dicevo, abili menti filosofiche erano in grado di affrontare le più sofisticate speculazioni logiche o mistiche. Non avendo, il Buddha, deliberatamente voluto lasciare nulla di scritto, dopo il Suo paranirvana studiosi dotati di quelle capacità intellettuali si divisero in molteplici scuole di pensiero concependo opere a profusione, commentari ed insegnamenti, alcuni dei quali redatti per contrastarne altri, funzionali alla peculiare didattica delle loro peculiari scuole buddhiste.

Non era propriamente il Dharma del Buddha ma interpretazioni diverse relative al Dharma del Buddha stimolate e poi elaborate dai punti opinabili o contraddittori del Canone Pali. Molte di queste opere, inoltre, vantavano di essere state direttamente enunciate dal Buddha stesso riportando l’appellativo di Sutra, tipico degli Insegnamenti presenti nel Canone. Per di più questi “nuovi” testi, pur non mettendo mai direttamente in discussione i fondamenti dottrinali riportati nel Canone Pali, erano scritti in modo tale da lasciare ampio spazio ad ulteriori interpretazioni e, quindi, ad ulteriori elaborazioni di pensiero.

Questo fu l’ambiente in cui si svilupparono le filosofie e le scritture del Mahayana in India, puntualmente importate in terra cinese.

La Scuola Tientai in Cina, seppur incentrata su di un particolare Insegnamento Mahayana chiamato Sutra del Loto, era di fatto una spugna di influenze e cercava di mantenere un certo equilibrio fra i vari tomi della Dottrina colà approdati. Ma ne erano giunti in quantità, e di svariate espressioni, in contrasto od in accordo gli uni con gli altri, influenzati da ogni sorta di credo e da elementi magici ed esoterici. Determinavano anche in Cina infinite discussioni, scissioni, creazioni di nuove scuole, senza dimenticare le fondamentali radici del pensare cinese risalenti ai fondatori del Taoismo e del Confucianesimo, con le quali il confronto era sempre aperto.

Mi immagino, a questo punto, un gruppo di eruditi monaci, riuniti intorno ad una fragrante tazza di tè in qualche fresca mattina primaverile, affacciarsi verso l’immensa valle dal monte Tientai, guardarsi espressivamente in faccia, esauriti da un tale contesto, ed esclamare con convinzione: “che palle!”

Forse, anzi, probabilmente, c’era anche una statua del Buddha con dei fiori da cui prendere spunto per nobilitare le origini della nuova scuola. Ecco, più o meno da questa sana reazione potrebbe essere nato il Chan, lo Zen cinese.

Una rottura atta a riportare la Dottrina alla sua dimensione concreta attraverso l’esperienza fisica della meditazione, basandola su elementi teorici essenziali e sufficienti a supportare la pratica.

Urge, a questo punto, il dovere da parte mia di scusarmi per la ricostruzione apparentemente irrispettosa nei riguardi delle scuole buddhiste, Zen compreso. Certamente, nello sviluppo del Buddhismo vi sono stati momenti di confusione e contrapposizione dottrinale, ma questi momenti sono stati anche il crogiuolo in cui sono sorte geniali intuizioni e punti di vista innovativi di estrema importanza. Ogni indirizzo scolastico basato sulla pratica della meditazione e lo studio dei fondamenti del Dharma trova il proprio senso più compiuto nell’attrazione operata sul ricercatore sincero, ed anche alcune speculazioni un po’ azzardate sul lascito teorico del Buddha sono lecite se non scadono nel puro fideismo, perché dimostrano quanto vigore ci sia nel Buddhadharma.

Sostengo la mia posizione nello Zen a causa della mia semplicità d’animo e, comunque, sono pronto ad arricchirmi ogniqualvolta mi capiti di ascoltare un erudito di altro indirizzo enunciare la Dottrina.

In realtà, a rigore di onestà, questa trasmissione dello Zen: “al di fuori delle Scritture, senza alcuna dipendenza dalle parole” che fu per la mia semplicità d’animo un elemento di attrazione, deve essere stato un altro poetico modo, adottato dai primi fondatori del Chan, per dare un taglio netto con il cumulo di scritture buddhiste dell’epoca. Farsene un vanto oggi, com’è ancora in uso, mi pare un po’ anacronistico, perché di fatto la propensione dei maestri Zen nei secoli è stata piuttosto quella di lasciarci invariabilmente qualcosa di scritto. La letteratura del Chan prima e dello Zen poi è sconfinata, e lo stesso Dogen, fondatore del Soto in Giappone nel 1200, in soli 53 anni di vita ci ha lasciato circa 80 volumi che vanno a formare la gigantesca opera dello Shobogenzo.

L’inclinazione a scrivere qualcosa da tramandare, poi, non si è persa in epoca moderna, dove pare un dovere per un insegnante Zen consegnare un qualcosa delle sue opinioni ai posteri; alla faccia dell’assenza di scritture e parole con cui si presenta la Via!

La questione, semmai, è ben più profondamente annidata nel nostro animo e riguarda la nostra umana necessità ad usare la parola per comunicare. Necessitiamo fattualmente di parlare ed ascoltare onde acquisire conoscenza, ed una volta concessa la nostra fiducia alla fonte delle parole che ascoltiamo, ne diventiamo dipendenti. In altre parole, una volta accettata l’autorità della loro provenienza, siano queste parole scritte o tramandate oralmente, perdiamo il nostro senso critico e ci assoggettiamo ad esse.

Lo stesso Buddha non si era risparmiato nel metterci in guardia su questo aspetto. Ci aveva infatti invitato a non dare la Sua parola per verità certa solo in base all’accettazione della Sua autorità, ed il fatto di aver scientemente evitato di lasciarci qualcosa da Lui personalmente scritta la dice lunga, anche se purtroppo neppure il Suo lascito orale è stato privo di manipolazioni.

La domanda vera ed onesta è perciò: i moderni seguaci dello Zen quanto sono dipendenti dalla parola scritta e orale?

Quanto necessitiamo di avvalorare la nostra posizione richiamando a nostro sostegno l’eredità letteraria o verbale di coloro che sono stati da noi riconosciuti maestri di vita, esseri virtuosi, fari di saggezza?

In definitiva: quanto profondamente siamo condizionati dall’accettazione passiva di una certa tradizione?

Supponiamo di poter usufruire della disponibilità di un’abitante della foresta amazzonica, magari uno Shuar del 1800, quando ancora la sua specifica cultura era integra. Oltre al dissuaderlo dalla voglia di tagliare e rimpicciolire la nostra testa, gli insegneremmo a sedere in zazen. Provenendo da una tradizione ricca di un profondo sentimento spirituale, il nostro amazzone ci prenderebbe presumibilmente gusto, dedicandosi alla meditazione continuativamente e con passione... Quale pensiamo sarebbe la sua descrizione dell’esperienza fatta? Corrisponderebbe con quanto tramandato nella tradizione Zen oppure verrebbe più probabilmente tradotta nei suoi numerosi riferimenti di culto?

Cito testualmente da alcune fonti Zen: “viva realtà del nostro sé originale”, “realizzazione di sé stessi”, “acquisizione della vera libertà”, “verità della vita”, “osservazione del nostro vero volto”.

Io stesso mi sono servito di immagini simili a queste durante la stesura del presente testo, ma sono lucidamente consapevole di aver utilizzato parole della tradizione allo scopo di descrivere la mia esperienza, per le quali non ho alcuna remora a dichiarare di essere debitore. Il nostro caro amazzone tradurrebbe certamente l’esperienza di zazen nella potenza delle proprie divinità, o degli ‘arutam’, i suoi spiriti di collegamento fra natura ed Assoluto, o nelle tre anime in possesso dell’uomo. E ne avrebbe certamente da ricamarci sopra.

Di fatto, realisticamente, le rappresentazioni attualmente in uso nello Zen testimoniano la dipendenza dalle descrizioni dei maestri della tradizione del Chan e dalla più ampia letteratura buddhista ed anche taoista, nel presente caso. Il valore concreto del pensiero buddhista, poi, vuole queste descrizioni affascinanti ed attuali persino nella nostra era postmoderna, per cui si indulge, talvolta inopportunamente, a riciclarle senza porsi domande in merito.

All’alba del terzo millennio penso dovremmo permetterci una revisione di alcuni concetti, ottica impossibile ai nostri antenati ma non a noi, e riterrei quindi più significativo evitare di ingaggiare un’assurda lotta alle parole, diventando, piuttosto, consapevoli del reale peso contestuale di quelle usate.

Nella scuola Zen pare ancora in auge il mito di poter rilevare tutta la conoscenza necessaria dalla pratica dello zazen, ignorando le basi del Buddhadharma. Come abbiamo però visto, risulta impossibile tramandare qualsiasi esperienza senza una condivisa cultura scritta e verbale della stessa, infatti, all’interno dello Zen, si è resa necessaria una letteratura di supporto ed una tradizione orale. In questa letteratura, però, spesso prevale una dimensione mistica o poetica atta a riformulare quanto già esposto dai fondatori della specifica tradizione, ma difficilmente vengono chiamati direttamente in causa gli elementi fondanti del Buddhadharma. Per chi conosce un po’ la Dottrina, non sono rari i momenti in cui se ne scorge traccia in queste letture, da cui, dicevo, la loro attualità, ma tali elementi appaiono quasi sempre come elaborazioni personali dei vari autori e non fanno esplicito riferimento alle parole del Buddha, o, comunque, a quelle a Lui attribuite. Mi domando persino, talvolta, se questi stessi autori ne siano stati, in passato, o ne siano, nel presente, consapevoli, oppure abbiano semplicemente rielaborato alcuni Insegnamenti della specifica tradizione Zen, ignari del fatto che, ovviamente, questi Insegnamenti fondano le proprie radici negli scritti del Mahayana, il quale, altrettanto ovviamente, fonda le sue radici nel Canone Pali, cioè nelle parole attribuite al Buddha.

Il problema da me avvertito riguarda la corretta collocazione dello Zen all’interno del Buddhismo, collocazione di fatto, ma riconosciuta solo in modo superficiale da chi segue questa scuola. I praticanti Zen vengono solitamente edotti a considerarsi parte del Buddhismo in quanto lo zazen sarebbe la medesima pratica con cui il Buddha raggiunse l’Illuminazione. Poi c’è il mito per il quale Mahakasyapa, considerato il Primo Patriarca della scuola, ricevette dalle mani del Buddha stesso il vero cuore della Dottrina. Ci si aggiunge la venerazione per il kesa, l’abito fatto di pezze indossato dai discepoli del Buddha storico. Resta poco di più. Per cui il seguace dello Zen si trova nell’assurda posizione di non sapere di appartenere al Buddhismo per molti altri principi, non essendo cosciente di quanti elementi della sua pratica appartengono ad una dimensione più ampia, più antica e condivisa della sola propria tradizione. Il pasticcio nasce dall’aver perso i contatti con le giustificazioni razionali della Dottrina, le sole in grado di connotare lo Zen all’interno di un sistema omogeneo, dove ogni pezzo combacia con l’altro. Così la pratica Zen si trova sbilanciata verso una dimensione mistica, dipendente da schemi tradizionali giustificanti sé stessi e, perciò, incline al fideismo, tanto da dover parlare di sé in forma mitica o poetica.

Si potrebbe pensare a tale situazione come ad un ineluttabile retaggio dovuto all’appartenere ad una specifica, vetusta scuola, ma, allora, come mai ciò non si riscontra nel Vajrayana, dove, invece, i riferimenti alle basi del Buddhismo sono sempre chiaramente esposti, studiati, tramandati? Per amor del vero, tale problema non si riscontra neppure nello Zen Vietnamita, il Thien, la qual cosa dimostra la totale compatibilità fra lo Zen e la tradizione del Buddhadharma.

Non si può prescindere quindi, a mio parere, dai fondamenti dottrinali del Buddhismo dove è insita un’appartenenza più ampia e condivisa, oltre alla vera motivazione per cui si pratica zazen. Se la pratica della meditazione è lasciata solo a sé stessa, subisce necessariamente l’interpretazione più consona al tipo di praticante, al quale non è poi vietato fondare una propria tradizione e perdere di vista le radici buddhiste. È successo, ad esempio, con alcuni insegnamenti di zen cristiano, diffusi da un padre gesuita tedesco.

Qualcuno vede in questa potenzialità dello zazen un suo specifico punto di forza: essendo nell’ambito dell’inesprimibile, ognuno può prendersi la libertà di esprimerlo come gli garba. Sarebbe un po’ come la libertà di comprare l’ultimo modello di Ferrari al solo scopo di trainare un carretto.

Certo, capisco, nell’ambito della libertà di scelta individuale un miliardario potrebbe comprare l’acquario di Genova per fare il bagnetto al suo chihuahua. Sarei proprio curioso di sentire le argomentazioni di chi ritenesse appropriati questi comportamenti, anche alla luce degli evidenti scopi per cui sono stati costruiti un’automobile Ferrari o l’acquario di Genova.

Quindi non voglio negare il diritto di chiunque a manipolare il proprio zazen come gli garba, ma ricordo umilmente il motivo per cui è stato creato dal Buddha, e cioè quello di accreditare con l’esperienza fisica, personale, diretta, un insegnamento dottrinale dalle implicazioni imponenti. La meditazione è, di fatto, l’unico mezzo per rendere accessibili quelle estensioni del Dharma impossibili da cogliere intellettualmente. In altre parole è uno strumento indispensabile per accostarsi a quella dimensione oltre i contenuti mentali descrittaci dal Buddha ma non intelligibile e, mi tocca affermarlo, se viene decontestualizzata, si snatura. Porre la pratica meditativa solo all’interno di una tradizione scritta e orale divenuta abilissima a ruotare su sé stessa, seppur con opere di indubitabile interesse culturale e cultuale, se non addirittura di notevole valore artistico, non rende comunque piena giustizia al suo ruolo.

Leggo inoltre stupito, su testi redatti da eminenti monaci contemporanei, la collocazione dello Zen in una qualche zona incontaminata dello spirito umano e trovo in tutta onestà queste descrizioni davvero irragionevoli, dal momento che la storiografia Zen, dai tempi remoti ad oggi, ci narra di diatribe interne, contrapposizioni e litigi fra monaci e maestri talvolta smaniosi di ingraziarsi i potenti, ma ben distanti dalla perfezione di chi: “ha rinunciato alla sicurezza delle teorie e dei propri schemi mentali per fare esperienza della Verità Assoluta”.

La mente immersa nell’Assoluto durante zazen non è quella di quando quella stessa mente sta nella calca del metrò, e se pure ci si pone l’obiettivo di renderle univoche, il procedimento è tutt’altro che immediato. Si dovrebbe poi adottare un’analisi critica anche riguardo al rapporto tra la ricerca di tale Verità Assoluta e le consuetudini operative legate ad una certa tradizione. Ad esempio, nel nostro caso, quanto è in uso quotidianamente in un monastero Zen non rappresenta l’esperienza della Verità Assoluta, ma è solo la messa in atto di particolari prassi in uso in una specifica tradizione, infatti, quelle metodologie rituali ed educative lì adottate, non sono una rinuncia agli schemi mentali, ma sono esattamente degli schemi mentali. Se la Verità appartiene ad una dimensione fuori dalla portata del raziocinio, le prassi cerimoniali e quelle educative sviluppate dal concettualizzare di qualcuno in qualche tradizione, possono cercare, nei casi migliori, di riferirsi alla Verità, ma non possono essere la Verità. Ammesso che sia giunta fin là, quando la mente cerca di tradurre l’Assoluto nel Relativo crea inevitabilmente uno schema. Ogni scuola buddhista, Theravada, Vajrayana o Zen, possiede infatti le proprie specifiche prassi, cioè i propri schemi rituali ed educativi, con la sola eccezione della pratica meditativa di consapevolezza, certamente molto simile nei tre sistemi, per quanto, essa stessa, uno schema. Riconoscerlo è un necessario atto di onestà e trascinarsi dietro vecchie diatribe tipo quella fra l’Illuminazione improvvisa e l’Illuminazione graduale non è di aiuto alle cose così come sono.

Riscontro in certe descrizioni (liberamente acquisite da libri o siti web) l’antipatica tendenza a rimarcare una certa estraneità dello Zen, non solo dalle altre religioni, ma persino dal Buddhismo, come se quest’ultimo fosse una zavorra ideologica da cui è, se non necessario, almeno utile liberarsi, per poter percorrere una: “via semplice, diretta e concreta che ci porta alla Realtà”.

Oltre ad essere falso, è anacronistico. Se avessi ascoltato tali affermazioni nel VI secolo dai famosi monaci Tientai, asfissiati da un Buddhismo divenuto distante dalle istanze originali di Shakyamuni Gautama, ne avrei riconosciuto almeno il desiderio autentico di ritorno ad un percorso non solo speculativo ma anche praticabile.

Il Buddhadharma è oggi stato filtrato dalla storia disponendo dei testi senza dover viaggiare a piedi per il mondo, ed è stato analizzato dai più moderni confronti filosofici, psicologici, scientifici ed interscolastici. Questi confronti hanno stabilmente determinato il valore della Dottrina in tutti questi contesti, dove quello scientifico è oggi predominante, con l’avvento delle nuove scoperte in psicologia evoluzionistica, neurobiologia, medicina partecipativa, fisica quantistica. Alcune semplici basi dottrinali accomunano, allo stato attuale, tutti i percorsi storicamente legati all’insegnamento di Gautama Shakyamuni ed il riferimento a queste basi dovrebbe inevitabilmente rappresentare un punto di forza. Tali basi dottrinali, lo ribadisco, sono perciò indispensabili, oggi, anche in un contesto Zen, nonostante qui ci si ostini ad ignorarlo.

Le necessarie fondamenta comuni ci propongono una descrizione logica e scientifica della realtà circostante e dei nostri processi mentali. Ci offrono un percorso razionale in grado di accompagnarci ad uno sviluppo spirituale assai più concreto e meno fideistico del pensare che il solo sedersi in zazen possa bastare a percorrere la Via del Buddha.

Non desidero sia solo sterile polemica, questa, ma, piuttosto, una proposta di riflessione.

Per quanto mi riguarda, se da un lato non amo molto le sfide con gli altri gradendo maggiormente la ricerca di armonia, non riesco a resistere alle sfide con me stesso. Dogen Zenji racconta di quando, durante il suo peregrinare alla ricerca di un maestro, incontrò un vecchio monaco con la mansione di cuoco intento a lavorare sotto ad un impietoso sole cocente. Gli disse di quanto fosse stupito della scelta di occuparsi lui personalmente di quegli impegnativi compiti, data la disponibilità di giovani monaci più adatti all’uopo, ed il vecchio lo mise di fronte, con una risposta perentoria, alla sua limitata comprensione dello Zen: “Anche se posso destinare questo lavoro ad altri devo occuparmene io in prima persona. Nessuno deve farlo per me. Se capissi lo Zen” gli disse “capiresti la mia necessità di esserci, col mio intero essere, qui ed ora.”

Similmente io mi sento in dovere con me stesso di porre all’attenzione della coscienza tutto quello per cui ho deciso di vivere, allo scopo di essere presente in prima persona per affrontare direttamente la realtà delle cose. Non mi accontento di frasi fatte o di prassi imposte da autorità superiori. E lo faccio con umiltà, pronto a ricredermi qualora fossi colto in errore.

Sono ben conscio della possibilità, in questo modo, di ritrovarmi spesso solo, magari sotto ad un sole cocente, ma mi è ben chiaro di doverlo fare senza condizioni, pur con i miei limiti, per rispetto di me stesso, della mia onestà interiore.

Questo è il motivo per cui non smetterò.

Uno sguardo lucido e disincantato sul mondo dello Zen, sulle sue tradizioni e sulla sua pratica, in grado di separare il mito dal reale e capace di riconnetterlo all’Insegnamento originale del Buddha Shakyamuni delineando così una visione unitamente antica ed attuale.
Una stesura di idee innovative, semplice e diretta, scomoda e critica, basata su un’osservazione logica che unisce la disarmante razionalità di Krishnamurti con la pratica della meditazione, ribadendo il diritto di dignità scientifica alla ricerca interiore.
È un libro dedicato non solo ai praticanti Zen, ai ricercatori buddhisti, ai seguaci di Krishnamurti, ma anche a tutti coloro che amano il confronto sincero, aperto, diretto, in cui l’innocenza abbia ancora un valore profondo.

 

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